Quando Milano era degli artisti: Marco Messeri racconta gli anni ’70

L’attore studiava al Piccolo e lavorava in incognito (anche in un locale di Turatello), scoprendo un mondo libero ed euforico, ricco di incontri: da Pino Pinelli a Mario Soldati, dalla mitica Milly al futuro Gabibbo. "E Paolo Poli, che mi faceva leggere Moravia e Palazzeschi. Poi m’interrogava" di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Marco Messeri

Marco Messeri

Milano, 13 febbraio 2016 - «Io e Leonardo Da Vinci ci siamo trovati bene a Milano». Parola dell’attore Marco Messeri. «Anche se non credo nel fatturato».

Certo non è un uomo d’affari. Qual è la Milano che ci vuole raccontare?

«Ho conosciuto tante Milano. La prima quella del mio provino al Piccolo. Era il 1 settembre 1969. Avevo 18, studiavo pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, ma decisi di tentare con la recitazione. Al liceo artistico facevo sempre ridere tutti con le mie imitazioni. All’esame recitai testi di Cecco Angiolieri e Aldo Palazzeschi. Ero l’unico che aveva portato cose divertenti. “Abbiamo trovato il nostro Brillantino”, disse subito dopo, tutto arrotato, Paolo Grassi che assistette alla mia prova. Era fatta, cominciavo una cosa nuova».

Com’era la Milano degli anni ’70?

«C’era una speciale euforia che la pervadeva. I posti in cui trovarsi erano molti. C’erano le latterie, un’infinità di bar e ristoranti, osterie e circoli. C’era soprattutto la voglia di stare per strada, frequentare teatri e locali. Era piena di studenti, perché proprio in quegli anni c’era stata la liberalizzazione dei corsi di laurea. Ed era più facile darsi da fare per sbarcare il lunario».

Cosa si era inventato?

«Al mattino andavo a scuola, la sera lavoravo sotto falso nome, perché agli studenti del Piccolo era vietato. Diventavo Marco Brozzi, che era il soprannome che mi avevano dato a Firenze. Alle nove di sera ero al Teatro Uomo in via Manusardi a recitare in “Il Brasile” di J. Rodolfo Wilcock, con la regia di Paolo Poli e finivo la serata a cantare canzoni nel ristorante “Vecchia Milano” che stava in Porta Ticinese, gestito da Piero Trombetta, autore di “Kriminal Tango” e dal fratello, mentre il proprietario era Francis Turatello. Ogni giorno guadagnavo 9 mila lire, 6 mila a teatro e il resto cantando».

Beh non pensa al fatturato, però, così non se la passava male.

«Non riuscivo a studiare e basta, ero sulle spese. Infatti lasciai la Scuola del Piccolo dopo qualche mese. Al Teatro Uomo conobbi anche Giuseppe Pinelli, veniva sempre con un cane lupo e organizzava collette per aiutare le famiglie degli anarchici. Nel cast de “Il Brasile” c’era anche Gero Caldarelli, che poi sarebbe diventato famoso come il Gabibbo di Canale 5, Claudio Lorenzi e Alma Cappiello che poi si sarebbe dedicata alla politica». 

La sua via preferita?

«Via Zecca Vecchia. Abitai al civico 2 fino alla metà degli anni ’70. Non è lontana da piazza San Sepolcro e dalla Biblioteca Ambrosiana. La mia era una casa di ringhiera, una sola stanza col bagno in comune all’esterno. Prima ci viveva Aldo Reggiani, l’attore dello sceneggiato “La Freccia Nera” con la Goggi. Purtroppo ora è stata demolita. In quella via ho conosciuto una Milano formidabile, dove mi sembrava che tutto potesse accadere. Proprio lì vicino, in via S. Maurilio 24 c’era “Il Refettorio”, il mitico locale gestito da Roberto Brivio, uno dei “Gufi”. Per lui feci un provino, cantando le canzoni milanesi in toscano, piacqui e Roberto mi propose un contratto di nove mesi, lasciandomi anche la direzione di alcune serate. In seguito misi in scena “Scherzo di mano, scherzo di villano” con Daniele Formica».

Quale Milano ha conosciuto in questa strada?

«Una Milano in cui tutto si mescolava ma il collante era la cultura, l’amore per l’arte, i libri, la scena. Vedevo passare Milly, già molto anziana, che andava in un ambulatorio della zona per alcune cure. Sono devoto di Milly, ho imparato molto ascoltandola, asciugava l’interpretazione delle canzoni, dando incisività alle frasi. Poi in un bar-biliardo che avevo sotto casa, trovavo sempre Mario Soldati che ci andava a scrivere. Sembrava l’omino della Bialetti. Quando si stufava, si alzava e cominciava a chiacchierare».

Insomma la sua è una Milano artistica?

«Sì perché gli artisti di Milano mi hanno indicato la strada. Anche se ho un debito con Paolo Poli. Allora abitava in zona Sarpi. Mi spronava a leggere Moravia, Cecco Angiolieri, Goldoni e mi faceva imparare a memoria le poesia di Aldo Palazzeschi. Non potevo neanche barare, perché poi me le chiedeva».

Il tratto che l’ha colpita di Milano?

«Una certa affettuosità tra le persone. La cordialità dei negozianti. Il salutarsi e scambiarsi sempre qualche parola gentile: è un modo positivo di affrontare la giornata in pace con tutti».

di MASSIMILIANO CHIAVARONE

mchiavarone@gmail.com