"Sono una curatrice triste". Così risponde Maria Vittoria Baravelli quando le si chiede come si definirebbe. Incline alla malinconia nostalgica. Ma, paradossalmente, è proprio a questa tendenza meditativa che deve, spiega, la sua grande creatività.
Creatività e passione che l’hanno portata, a poco più di trent’anni, a curare importanti mostre d’arte e fotografia, tra Roma e Milano, a collaborare con marchi come Sony e Armani e a diventare membro del Cda del Museo d’Arte di Ravenna. Da pochissimo ha anche pubblicato, per Rizzoli, un "saggio di cultura visuale" dal titolo Il mondo non merita la fine del mondo. Sin dai primi paragrafi insiste molto sull’importanza di rapportarsi vis à vis con l’opera d’arte.
Solo la tangibilità di un oggetto può far scaturire empatia e connessione in chi guarda? "Sì. Credo che l’opera d’arte – presa nella sua essenza fisica, materica – entri negli occhi di chi guarda e non ne esca più. Questo perché, a differenza di una riproduzione qualsiasi, è in grado di coinvolgere lo spettatore trasportandolo nel periodo in cui è stata concepita. Le pennellate di colore, le imperfezioni del marmo ci mettono in contatto diretto con l’artista, rispetto al quale percepiamo, al contempo, immensa vicinanza e lontananza. Al proposito cito una frase di Vivienne Westwood: l’arte ferma l’orologio. Ed è vero, perché mettendo in pausa il presente ci porta in un altrove geografico e cronologico".
Le è mai capitato di piangere davanti a un’opera d’arte? "Diciamo che ho la lacrima facile di fronte a qualsiasi forma d’arte, compresa la poesia. Però a commuovermi non è mai l’opera in sé, quanto il suo rapporto col mio vissuto. Se vedo un dipinto che mi richiama alla memoria un momento o una sensazione particolare vissuta, ne sono sconvolta. Prendiamo “La lattaia di Vermeer“ che, non a caso, apre il mio libro. Quando la guardo, assorta com’è nel gesto semplice, quotidiano di versare il latte, mi chiedo: ma chi era? Come la trattavano i suoi padroni? Poteva vivere dignitosamente o condivideva la sua dura esistenza con i molti invisibili del nostro tempo? Mi interrogo sull’autore. Perché scegliere di dedicarsi al ritratto di una figura così umile, in un mondo in cui solo l’élite era degna di una rappresentazione? E poi ci sono i dettagli, quelli sì che sanno essere evocativi. Sulla parete di sfondo del dipinto sono conficcati chiodi, che però restano nudi, spogliati della funzione. Stanno là, senza motivo. Anche a noi a volte accade di attraversare delle situazioni che ci sembrano, a primo acchito, senza senso. O di sentirci imperfetti, incompleti. È il meccanismo che mi emoziona: ritrovare qualcosa di me nell’opera".
Cosa pensa della fruizione digitale dell’arte? "In un mondo iperconnesso come il nostro sarebbe anacronistico e insensato opporvisi o non riconoscerne l’utilità. Checché se ne dica, viviamo nel momento migliore per avvicinarci all’arte: tutti, potenzialmente, abbiamo accesso alle opere, ovunque esse si trovino. È un’enorme ricchezza. Ma resto dell’idea che i contenuti web siano un elemento di complemento, mai di sostituzione dell’esperienza diretta in museo".
Si è trasferita da Ravenna a Milano, che rapporto ha con la città? "Mi sono trasferita a Milano dieci anni fa. Appena arrivata ero sola, malaticcia e la città era preda di una nebbia fittissima. Amo la nebbia come amo questa città, che mi ha dato tutto senza togliermi nulla. È vero, non è sempre facile vivere a Milano soprattutto con certe sue dinamiche sociali ed economiche squilibrate. A me ha dato tutte le opportunità che desideravo".