
Matteo Viviani
Milano, 19 settembre 2015 - «Milano è stupenda ma deve combattere quella tendenza che la vuole città superficiale, del “tutto e subito”». Lo spiega Matteo Viviani, una delle Iene televisive.
Che intende dire? «Parlo di quella Milano che non si ferma a pensare, che prova mille sapori senza ricordarne uno. In questa città più che in altre, la nostra felicità scaturisce dalla qualità delle nostre idee, dal farsi domande. Molto dipende da come ci si predispone verso la vita e gli altri: se cerchi persone trovi persone, ma se cerchi vuoto, trovi solo vuoto».
E lei cosa ha trovato quando è approdato a Milano? «E’ come se avessi vissuto più vite. Sono arrivato quando avevo poco più di 20 anni dalla provincia di Arezzo, dove facevo l’orafo ma avevo voglia di cambiare. A Milano ho cominciato come cameriere. Era il 1994. Vivevo in 16 metri quadri in piazzale Lodi, in una casa con la moquette verde pisello e gli infissi rosso ferrari. Non potevo resistere».
Doveva espandere i suoi orizzonti? «L’ha detto. Ho iniziato a fare il ballerino. Mi esibivo in alcuni locali della Lombardia come “Le Rotonde” di Garlasco e la discoteca “Centrale del Latte” di Cremona e se mi capitava facevo anche lo stripper come nel film “Full Monty”: venivo ingaggiato per feste di addio al nubilato e dell’8 marzo. Ho continuato così per alcuni anni poi il mio debutto sulle passerelle, anche per capi di intimo maschile griffati».
Insomma non si è fatto mancare nulla? «Sì, poi ho anche gestito due locali notturni, messo in piedi un’attività di import export di accessori, fino a quando sono finito a fare il valletto nelle trasmissioni di Fabio Fazio, ma poi la svolta».
Scommetto che c’entrano “Le Iene”? «Sì, sono stato selezionato in un casting e ho cominciato a collaborare con uno degli autori, Andrea Benpensante. Il mio primo servizio fu in uno dei posti in cui si incontrano i gay a Milano. Facendo leva sul mio bell’aspetto, dovevo attirare i frequentatori del luogo e farmi raccontare le loro storie, mentre li filmavo con una telecamera nascosta».
E non si sentiva in colpa? «No, perché la loro privacy è stata tutelata, non è emerso nulla della loro identità. Volevamo offrire uno spaccato di quella realtà. Era il 2005. Per me si trattò di una gavetta durata circa due anni. Proponevo molto, ma realizzavo pochi servizi. Però non demordevo e ogni mattiva ero alla redazione delle Iene. Prendevo 250 euro lordi a servizio. Non ci stavo dentro. Meno male che dove non arriva il portafoglio arriva l’astuzia». Cosa vuol dire? «Affittai un appartamento molto grande, di circa 150 metri quadri in corso Buenos Aires e subaffittavo ad ottimi prezzi tre stanze della casa all’agenzia “Why Not” che le usava come alloggio per le modelle. Così ho vissuto per circa 5 anni gratis, circondato da belle ragazze». E poi il resto è storia con il servizio sull’uso di stupefacenti da parte dei parlamentari italiani? «Sì, un servizio che ha fatto il giro del mondo ripreso anche dal New York Times». Intanto ha sempre vissuto a Milano e ha messo su famiglia. Qual è la via della città che preferisce? «La via Imbonati. E’ come attraversare un posto diviso in due parti. La prima presenta una particolare concentrazione di immigrati, sembra una casbah. E’ sciatta e degradata. La seconda parte invece è piena di costruzioni moderne, come la Giax Tower, architetture sviluppate in altezza e anche vecchie case di ringhiera recuperate. Si tratta in quest’ultimo caso di una periferia rinnovata e che dialoga con la parte più avveniristica della città, come la zona di Porta Nuova. Ora sarebbe il caso di migliorare anche il primo tratto della via, mettendo fine al solito adagio che vede le zone terminali della città, come terra di nessuno e simbolo di abbandono». E lei per invitare Milano a riflettere ci ha ambientato anche il suo primo libro? «Sì, ne “La crisalide nel fango” (Mondadori) racconto quella Milano di oggi popolata da persone concentrate solo su loro stesse e dei rischi che si corrono: trasformare la città come moltitudine di singoli, che non si toccano, non si appartengono, che interagiscono in modo virtuale. E’ a questo che bisogna ribellarsi per impedire che la follia prenda il sopravvento come nel romanzo». Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it