Milano, 19 gennaio 2017 - Un’odissea lunga un anno. Dalla Somalia alla Sicilia, e poi a Milano. Un viaggio interminabile. Tre campi di prigionia. Cambi di autobus (fino a 21) e confini attraversati a piedi per eludere i controlli delle forze dell’ordine. Le istantanee del drammatico esodo dal Corno d’Africa emergono dalle testimonianze choc che hanno inchiodato Osman Matammud, il presunto torturatore di Bani Walid fermato lo scorso 26 settembre dagli agenti della polizia locale davanti al centro di smistamento di via Sammartini e destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Anna Magelli per omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale. Chara (nome di fantasia), 17 anni appena compiuti all’epoca dei fatti, parte da Mogadiscio nel gennaio del 2015: «Mia madre, tramite parenti, ha raccolto i soldi (500 dollari, ndr) e me li ha consegnati. Sono rimasta a Jigjiga (in Etiopia, ndr) per sei mesi, il tempo necessario affinché l’organizzazione pianificasse il viaggio dall’Etiopia al Sudan, e poi da lì alla Libia».
Da Jigjiga, via Addis Abeba, la ragazza, insieme ad altre decine di profughi, viene trasferita nel primo campo di prigionia a Bani Walid: quello gestito da tale Kalifa, che alcuni dei richiedenti asilo sentiti dai vigili dell’Unità tutela donne e minori hanno indicato come il vero capo dell’organizzazione nonché cugino del ventiduenne Matammud alias Ismail. «Sono rimasta cinque mesi nel primo centro – continua Chara –. A novembre sono stata trasferita in un altro centro, più vicino al mare, dove ho conosciuto Ismail». Sevizie, stupri e violenze di ogni genere che ne segneranno per sempre la vita. Nel marzo del 2016, la ragazza viene caricata su un camion «di quelli utilizzati per trasportare il bestiame» e trasferita a Sabratha, la città della costa libica dalla quale partono le carrette del mare che solcano quotidianamente il Mediterraneo: «Abbiamo aspettato lì altri quindici giorni in modo da raggiungere il numero di 700 persone da mettere su un solo barcone. Con piccole barche siamo stati trasportati su un barcone. Poi, mentre eravamo sul barcone, è arrivata una persona che ha addestrato uno di loro, un profugo sudanese: gli stavano insegnando a guidare il barcone e gli hanno lasciato un telefono, o almeno suppongo fosse un telefono, perché tutti sapevano che c’era un Gps». La traversata va a buon fine, per fortuna. Chara viene fotosegnalata il 14 aprile 2016 presso l’Ufficio Immigrazione della Questura di Reggio Calabria e accompagnata in un appartamento gestito da una cooperativa a Vicenza.
«Da lì – conclude – io e Bukola (altro nome di fantasia per una sua amica minorenne, ndr) siamo venute a Milano e a Como, dove abbiamo cercato di passare il confine (con la Svizzera, ndr). Siamo state prese e Bukola è stata riaffidata alla famiglia di Vicenza. Io per una notte ho dormito presso la famiglia affidataria di Bukola, e il giorno successivo siamo di nuovo fuggite e tornate a Milano. Abbiamo dormito in via Sammartini presso l’hub». Fino all’inaspettato faccia a faccia con l’aguzzino. nicola.palma@ilgiorno.net