
di Simona Ballatore
"In un anno “normale“ adesso sarei a Stoccolma a festeggiare con Mike. E invece mi tocca aspettare che un altro amico vinca il Nobel". Sergio Abrignani, professore di Patologia generale all’università Statale di Milano, ha appena sentito al telefono “Mike“, Michael Houghton, per complimentarsi con lui del premio Nobel alla Medicina conquistato insieme ai due colleghi americani Harvey J. Alter e Charles M. Rice per la scoperta del virus dell’epatite C.
Ha già sentito Houghton?
"Certo! Sono troppo felice per lui. È un Nobel super meritato. Lui non se lo aspettava. O meglio, in realtà se lo sarebbe immaginato qualche anno fa, quando sono stati premiati col Nobel gli scopritori dell’Hiv e del Papilloma virus. È stata una bella sorpresa. E in effetti grazie alla sua scoperta la vita è migliorata sì: il virus si trasmetteva con le trasfusioni, colpiva decine di migliaia di persone ogni anno. Era tipico infettarsi in ospedale, dal dentista. Grazie alla sua scoperta sono stati sviluppati farmaci che curano il 95% delle persone, le morti sono diminuite in modo vertiginoso".
Avete lavorato insieme su questo fronte e firmato una ventina di studi insieme. Sente questo Nobel un pochino anche suo?
"No, lui è un gigante! Diciamo che ci siamo divertiti a collaborare e abbiamo anche firmato importanti lavori insieme. Io ho scoperto il recettore del virus CD81 ma senza la sua di scoperta non ci sarebbe stato nulla".
Come vi siete conosciuti?
"Gli scrissi io, nel 1990. Lui aveva già identificato il virus dell’epatite C prima sconosciuto. Basta pensare che lo chiamavano “non A“ e “non B“. Gli scrissi che mi interessava studiare la risposta immunitaria del virus. “Ti mando tutto, le proteine e i reagenti“, mi rispose. Abbiamo iniziato a collaborare e siamo finiti a lavorare nella stessa azienda, la Chiron di San Francisco. Per dieci anni siamo stati colleghi e abbiamo cercato di sviluppare il vaccino contro l’epatite C anche se non ci siamo riusciti. Quanto lavoro insieme e quanta amicizia".
E com’è l’amico Mike? Avete scoperto passioni in comune in questi anni?
"Forse un pochino le automobili. Ma la sua vera passione è il cricket E io, da italiano, non sapevo nemmeno cosa fosse. Cercava di spiegarmi. Quando eravamo in California nessuno giocava a cricket ed era il suo cruccio. E così si abbonava alle tivù caraibiche e inglesi: sa che le partite durano anche quattro giorni? Pazzesco. Io sono di Marsala, lui è molto British. Ma è una grande persona. Ci accomuna la passione per la ricerca".
È mai stato suo ospite?
"Sì, è anche venuto a casa mia in Toscana. È più British di campagna che di città e ama le cose belle. È stato all’ultimo meeting di Venezia e insieme organizzammo anche il meeting di San Diego nel 2002 insieme a Rice, altro Nobel".
Festeggerete questo Nobel insieme?
"Sicuramente. Causa Covid la cerimonia sarà virtuale, altrimenti ci sarei andato. Devo aspettare il Nobel di un altro amico ora".
O il suo.
"Le scoperte da Nobel cambiano la vita delle persone, sono epocali. Io ne ho fatte di importanti ma di “rifinitura“".
Di cosa si occupa adesso?
"Sono immunologo. Fino ad aprile mi occupavo delle risposte immunitarie nei tumori, ho dato vita anche a una start-up in università. Ma poi mi è ritornato il “demone del virus“: sto lavorando sulla risposta immunitaria al Sars-CoV-2, comparando chi ha decorsi diversi di malattia, chi ha forme gravi e chi leggere per capire cosa ci possa essere di sbagliato".