MARIO CONSANI
Cronaca

Sequestro Moro, la via milanese alla trattativa tra Stato e Br

La strada della possibile trattativa tra lo Stato e le Br era strettissima

Bettino Craxi

Milano, 26 agosto 2018 - La strada della possibile trattativa tra lo Stato e le Br era strettissima - contrari pubblicamente i due partiti maggiori Dc e Pci - e riguardava di fatto solo gli ambienti socialisti e radicali. E perché proprio Paola Besuschio poi, quando il vertice delle Br aveva chiesto, per salvare l’ostaggio Moro, la liberazione di tredici terroristi compreso l’intero stato maggiore dell’organizzazione all’epoca in carcere? Il nome dell’allora giovane brigatista attiva a Milano ma non coinvolta in fatti di sangue (la sua partecipazione alla gambizzazione del leader dc milanese Massimo De Carolis nel maggio ‘75 era e resta solo un sospetto) venne in mente di sicuro all’avvocato Giannino Guiso, amico personale di Craxi ma anche legale del nucleo storico delle Br in quel momento detenuto (da Renato Curcio ad Alberto Franceschini), che in un’intervista al Giorno ancora trent’anni dopo l’omicidio Moro ribadiva la sua convinzione: «Sarebbe bastato - diceva - che un magistrato della Repubblica , nella sua indipendenza, concedesse la libertà provvisoria a un terrorista in carcere, uno come Cesare Maino che era quasi cieco, per esempio, o Paola Besuschio...». Besuschio, dunque, la veronese attiva a Milano nella fabbrica Sit Siemens, dove aveva lavorato con il futuro capo delle Br Mario Moretti, arrestata in Toscana nel settembre del ‘75 e rimasta anche gravemente ferita. A ricostruire quei momenti e il tentativo di arrivare a uno spiraglio per una possibile trattativa sono stati, davanti all’ultima commissione parlamentare sul caso Moro, diversi personaggi legati all’allora Psi e agli ambienti craxiani come Umberto Giovine, dalla fine degli anni ‘60 direttore della storica rivista milanese Critica Sociale. «L’input per cercare di intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il sequestro a Torino, durante il congresso del Psi». Giovine ne parla con l’inviato del Corriere della sera Walter Tobagi, anche lui di simpatie socialiste e di lì a poco ucciso dai terroristi, che suggerisce di contattare l’avvocato Guiso come possibile intermediario con i brigatisti in cella.

Lo conferma il sociologo e scrittore Aldo Bonomi, un passato nella sinistra extra parlamentare milanese, oggi collaboratore del Sole 24 ore: «Da un punto di vista politico - ha spiegato quest’ultimo alla commissione Moro - un messaggio dall’interno del carcere poteva avere un significato, anche se nella logica delle Brigate rosse certo non erano i detenuti a decidere sulla sorte di Moro». C’è comunque la conferma della «circolazione, nel loro gruppo milanese, di fotocopie di lettere manoscritte di Moro che provenivano verosimilmente da Guiso e che furono trasmesse a Craxi, venendo a costituire una base per le successive trattative gestite direttamente dal segretario socialista». Intanto la brigatista Besuschio, in quella calda primavera di 40 anni fa, era in carcere a Messina. Lo ricorda lei stessa in un’audizione con la commissione Moro davanti al magistrato consulente Guido Salvini. «Scontavo la condanna definitiva per i reati connessi al mio arresto del settembre ‘75. Avevo anche un mandato di cattura emesso dal giudice istruttore Antonio Lombardi per altri reati commessi a Milano, legati alla militanza nell’organizzazione». Besuschio assicura però di non aver saputo nulla di un procedimento di grazia in suo favore. «A Messina ero isolata nel senso che non venivano a trovarmi, né io lo volevo, né i miei genitori né altri parenti (...) In quelle settimane nessuno mi ha coinvolto o proposto nulla. Solo in un momento successivo, non saprei dire quando, dalla stampa e dalle televisioni ho saputo di questo progetto».

Eppure, nella relazione finale la commissione Moro non crede alla brigatista tutta d’un pezzo anche quarant’anni dopo. Anche perché la conferma più autorevole sulla reale possibilità della grazia da concedere a Besuschio come «gesto autonomo di clemenza da parte dello Stato» che «potesse favorire la liberazione dell’ostaggio», arriva proprio da chi quel provvedimento di clemenza avrebbe dovuto firmare - l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, scomparso nel 2004 - sia pur attraverso la testimonianza resa dall’ex direttore del Giorno Francesco Damato. Ricevuto nella villa di Leone (che ben conosceva) in occasione del ventennale dell’omicidio Moro, nel ‘98, Damato riferisce che l’ex presidente gli raccontò di aver espresso da subito in quei giorni, al segretario dc Benigno Zaccagnini, la sua contrarietà alla linea della fermezza annunciata dal suo partito e dal Pci, e di aver in seguito promosso riunioni con il socialista Giuliano Vassalli per studiare le situazioni processuali dei tredici detenuti con i quali le Br avevano proposto lo scambio con l’ostaggio. E alla fine, racconta Damato riportando le parole di Leone, il nome individuato come unico possibile fu proprio quello di Paola Besuschio. Leone sapeva bene che Andreotti, allora premier, e la maggioranza Dc-Pci erano contrari. Ma contava sul ministro di Grazia e Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, “suo ex allievo e amico”. L’appuntamento con il ministro per la firma congiunta era stato fissato al Quirinale per il mezzogiorno del 9 maggio 1978. La Renault rossa con il cadavere di Moro venne fatta ritrovare dalle Brigate rosse poche ore prima.