
Paolo Morandini
Milano, 27 ottobre 2018 - È morto ucciso da un male incurabile. Paolo Morandini apparteneva alla storia degli anni più bui vissuti da Milano, attraversati dalla violenza del terrorismo. Il nome di Morandini è legato soprattutto all’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Dopo una condanna ampiamente mitigata dalla legge sui pentiti, era tornato libero. Aveva vissuto per lunghi anni a Cuba.
Figli della borghesia di sinistra milanese. Chi ha il padre giornalista, chi è figlio di un dirigente editoriale. Altri escono da famiglie di intellettuali progressisti, di professionisti. Approdano alla lotta armata attraverso il movimento del ‘77 e la militanza nell’Autonomia. Il gruppo (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, Francesco Giordano) costituisce la brigata XXVIII marzo nei primi mesi del 1980. Il 28 marzo i carabinieri del generale Dalla Chiesa hanno fatto irruzione in una base delle Brigate rosse, al 12 di via Fracchia a Genova. Nello scontro a fuoco sono rimasti uccisi tre militanti clandestini delle colonne genovese e torinese e la giovane proprietaria dell’alloggio, un maresciallo è stato ferito. In “Gli anni del terrorismo” Giorgio Bocca scrive che la XXVIII marzo «è uno dei tanti gruppetti che vorrebbero entrare nelle Brigate rosse, ma non dalla porta di servizio». Il 7 maggio del 1980, a Milano, il gruppo gambizza nel suo appartamento Guido Passalacqua, giornalista de “La Repubblica”. Il 28 maggio agguato mortale a Walter Tobagi, inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”, presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, atteso sotto la sua abitazione e ucciso in via Salaino all’angolo con via Solari. Le indagini identificano la neonata formazione terroristica in pochi mesi. Il 25 settembre del 1980 Barbone viene arrestato, confessa e collabora. Lo stesso fa Morandini. Nel 1983 vengono condannati entrambi a otto anni e 6 mesi di carcere (più tre mesi di arresto, cancellati nel processo d’appello) e ottengono subito la libertà provvisoria.
Paolo Morandini, ventunenne, è il figlio di Morando, critico cinematografico de “Il Giorno”. Terzogenito dopo due sorelle, coccolato dalla madre Laura che lo fa partecipare a spettacoli teatrali per bambini da lei stessa organizzati, cresce in un casa anticonformista, pervasa da stimoli culturali, nella quale, per un certo periodo, viene stampato il Bcd, il Bollettino di controinformazione che per primo dà voce a magistrati, medici, psichiatri democratici. La trasformazione avviene dopo i 15 anni. Gli amici di famiglia descrivono Paolo come un ragazzo chiuso, svogliato a scuola, indifferente alle raccomandazioni dei genitori. Nel 1977 la scoperta della politica, prima con il richiamo degli indiani metropolitani (gira con una foto di Toro Seduto), poi con quello dell’Autonomia. In casa lo vedono sempre meno. Per riavvicinarlo all’ambiente familiare, il padre le tenta tutte. Apre con la famiglia un cinema d’essai vicino a Milano, lo incoraggia senza successo a scrivere al posto suo qualche recensione di film, s’iscrive con lui a un corso di judo, gli paga una lunga vacanza in Sud America. A commento del suo dramma di genitore, Morando Morandini citava una frase dello scrittore francese Charles Peguy: «Il vero avventuriero del Novecento è il padre di famiglia».