Milano – “Ho visto il momento in cui il cavo si è spezzato e la cabina ha iniziato la sua corsa all’indietro. Ho sentito le urla di terrore dei passeggeri imprigionati all’interno". Paolo Pobbiati è un testimone diretto della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio di due anni fa costò la vita a quattordici persone. Un solo sopravvissuto: Eitan Biran, un bambino di sei anni. Pobbiati, milanese, fino a poco tempo fa insegnante di scienze motorie in un liceo linguistico, è impegnato da anni nel volontariato con Amnesty International.
Due anni dopo. "Il ricordo di quel giorno è rimasto incancellabile, anche se l’orrore di quei momenti è stampato nella mia memoria in bianco e nero, come se la presenza della morte avesse cancellato ogni colore". "Ho casa al Mottarone, sulla sinistra rispetto alla stazione della ferrovia. Verso le 10.30-11 ero fuori per una passeggiata. Mentre rientravo ho sentito provenire dalla funivia un forte rumore metallico, un colpo secco, violento, forte, molto forte. Come un metallo che viene tranciato o due automobili che si scontrano. Mi sono voltato. Ho visto la cabina oscillare violentemente. Ho sentito urlare le persone dentro. La cabina ha iniziato la sua corsa a ritroso per scomparire un attimo dopo dietro gli alberi. Sono corso sul piazzale della stazione, ma nessuno aveva visto nulla da quella prospettiva, così sono entrato nella stazione delle funivia. C’era un addetto, un ragazzo che aveva aperto il cancelletto per ricevere la cabina. Era sotto choc. Gli ho chiesto cosa fosse successo. Mi ha risposto confusamente che era caduta la funivia con dentro delle persone. Non riuscivo a capacitarmene. Nel 2021, pensavo, una funivia non può precipitare nel vuoto. Ci dovrà essere un dispositivo di sicurezza che la blocchi".
E invece non c’era. "Sono sceso lungo il percorso - continua -. Pensavo che qualcuno si fosse spaventato, che forse potevano esserci dei feriti che avrebbero dovuto aspettare a lungo prima di essere soccorsi. Avrei potuto essere di aiuto. Non trovando nulla, ho pensato persino di avere visto male. Ma scendendo ho visto il cavo tranciato e seguendolo sono arrivato alla cabina. È stato allora che mi sono reso conto di cosa fosse realmente successo. Ho visto i corpi sparsi dei morti e di quelli che erano ancora vivi e la cabina incastrata fra due alberi, con quelli rimasti imprigionati al suo interno. A uno ho passato la mia felpa. C’era una coppia di giovani escursionisti. ‘C’è uno che si lamenta’, mi ha detto la ragazza. Penso che fosse il padre del piccolo Eitan. Gli ho sentito il polso e la carotide, purtroppo non c’era più nulla da fare".
“Per tutto il tempo fino all’arrivo dei soccorsi il ragazzo ha continuato a parlare a Eitan, che era incosciente e ogni tanto emetteva qualche flebile lamento. ‘Come ti chiami? Ti chiami Alessandro? Alessandro, mi dici qualcosa? Mi senti?’. È una cosa che non è mai stata raccontata e ci tengo a farlo io ora perché vorrei che rimanesse memoria di quel gesto semplice ma pieno di umanità, che forse ha fatto sì che quel bambino rimanesse attaccato alla vita. Dopo diversi minuti, perché non è facile raggiungere quel punto, sono arrivati i soccorsi. Ho il ricordo di due dottoresse che si sono fatte calare con il verricello dall’elicottero in mezzo agli alberi, una manovra estrema eseguita con coraggio e perizia straordinari. Le abbiamo aiutate a imbragare Eitan e l’altro bambino ferito, che poi non ce l’avrebbe fatta. A quel punto siamo venuti via".
Due anni dopo, cosa è rimasto dentro? "Soprattutto rabbia. Questa tragedia ha tanti padri e tante madri. È figlia dell’incuria e del degrado che caratterizzano come viene tenuta tutta la zona del Mottarone. È figlia della logica del profitto a ogni costo, anche a discapito della sicurezza, e della faciloneria con cui vengono eluse le norme che dovrebbero garantirla. Fino a poche settimane prima, la stessa stazione della funivia sembrava un monumento alla ruggine, trasandata, con i muri scrostati e i vetri rotti. Era stata appena riverniciata e rimessa a nuovo, ma non riesco a capacitarmi di come gli interventi abbiano riguardato solo gli aspetti più esteriori e visibili, trascurando quelli relativi al corretto funzionamento dell’impianto. La storia del forchettone applicato all’impianto frenante mi fa ribollire il sangue ancora oggi. Ho preso la funivia tante volte. L’ho fatta prendere tante volte ai miei amici quando venivano a trovarmi. Sono passati due anni. Le promesse per sostenere gli esercenti che operano nel Mottarone sono rimaste per lo più lettera morta. E poi ci sono le responsabilità. Capisco la complessità delle indagini, che richiedono tempi lunghi, ma ancora oggi le famiglie delle vittime non hanno avuto giustizia".
Non è stato facile per Paolo Pobbiati riaccostarsi al Mottarone, riaprire la casa. "Sono tornato dopo una settimana. Non è stato semplice, ma poco per volta è tornato per me il luogo felice che era prima. Anche se il ricordo rimarrà sempre".