ANNA GIORGI
Cronaca

Muore incinta di 7 mesi per una patologia non riconosciuta dai medici: tre dottori della Mangiagalli a processo

La donna di 47 anni si sentì male e fu portata in ospedale. Vistata da cardiologi e internisti, nessuno capì cosa aveva. Ma secondo la Procura aveva il 70% di probabilità di salvarsi

Muore al settimo mese di gravidanza per una patologia non riconosciuta dai medici (foto archivio)

Muore al settimo mese di gravidanza per una patologia non riconosciuta dai medici (foto archivio)

Milano – Omicidio colposo in concorso. Con questa accusa tre medici della Mangiagalli (un quarto indagato nel frattempo è deceduto) sono stati mandati a processo.

Il caso è quello di una donna incinta di 33 settimane morta per “dissezione aortica”, senza che nessuno dei medici degli ospedali in cui è stata visitata si accorgesse di quanto stava succedendo e di quanto grave era la patologia sorta improvvisamente.

La tragedia risale al gennaio del 2020, il processo è già iniziato ed è alla battute finali, forse, già il prossimo 5 luglio si dovrebbe arrivare a sentenza.

La donna che, all’epoca dei fatti, aveva 47 anni era rimasta incinta con procreazione assistita, non aveva mai avuto problemi durante i primi mesi della gravidanza, a parte un diabete gravidico. Era arrivata, quindi, al settimo mese senza alcuna particolare complicazione. Nella notte del 4 gennaio la futura mamma si sente male, ha una minaccia di aborto e si reca alla Macedonio Melloni. Viene visitata, ma la clinica capendo la gravità della situazione la invia alla clinica De Marchi e poi viene trasferita alla Mangiagalli. L’internista della clinica Mangiagalli la visita e le viene diagnosticato un quadro di “scompenso cardiaco, con insufficienza valvolare aortica, di nuova insorgenza”.

La donna, che non era cardiopatica, viene ricoverata nel reparto di Cardiologia e viene visitata tre volte da tutti e tre i medici. Le viene fatto un elettrocardiogramma. La situazione della futura mamma però peggiora di ora in ora - contesta l’accusa - nelle carte con cui motiva il rinvio a giudizio dei tre medici: l’atteggiamento degli internisti e dei cardiologi è "attendista".

“Di fronte ad uno scompenso cardiaco con disfunzioni valvolari non presenti in precedenza, i medici - si legge nelle carte della richiesta di rinvio a giudizio - hanno omesso di eseguire un ecocardiogramma più approfondito o un ecocardiogramma trans toracico e transesofageo, o una tac toracica e addominale, accertamenti che avrebbero potuto condurre alla diagnosi ed avviare un trattamento terapeutico adeguato quale, nel caso di specie, l’intervento chirurgico e il taglio cesareo".

La donna, la mattina del 5 gennaio si reca in bagno ha dolori forti al torace e all’addome, si sente male e perde i sensi all’interno della toilette. Sarà soccorsa al momento in cui viene lanciato l’allarme, la donna è già gravissima e morirà di lì a poco. Vengono disposte due perizie. Per la procura e la parte civile un intervento chirurgico oppure un taglio cesareo avrebbero evitato il decesso con una probabilità del 70%. La donna cioè avrebbe potuto essere salvata, insieme alla sua bimba.

Soccorsa nel bagno, infatti, la donna è stata subito portata in sala operatoria dove è stato praticato un cesareo di urgenza che ha salvato la piccola.

Per la pm che ha chiesto il rinvio a giudizio dei medici la colpa è consistita nel "non aver osservato le raccomandazioni in caso di scompenso cardiaco che prevedono di indagarne la causa con esami strumentali come l’ecocardiogramma completo e successivamente il trans esofageo o la tac con mezzo di contrasto. L’imperizia, in quanto non è stato correttamente interpretato il quadro clinico, non essendo emerso durante le valutazioni cardiologiche il sospetto che le manifestazioni cliniche potessero essere riconducibili ad una causa extragravidica.

E infine la negligenza in quanto è stata tenuta una condotta attendista senza prescrivere in modo sollecito e accorto sulla base della competenza specialistica cardiologica gli accertamenti necessari per giungere alla diagnosi del quadro clinico". L’avvocata che difende le parti offese è Roberta Ligotti.