“Mai più voluto vedere la Corsica”. Gianpaolo Colizzi, storico esponente socialdemocratico, alla soglia degli 80 anni, non ha intenzione di guarire dal demone della politica. A Lodi, dove per decenni ha fatto e disfatto i destini di maggioranze e liste civiche, è stato a lungo alla guida del Consiglio comunale. Se si cerca un’analisi, un pronostico su fortune o disgrazie, bisogna chiedere a lui. Gli acciacchi e l’età non gli impediscono di essere sensibile come un ragno sulla tela, pronto a captare ogni vibrazione, ogni sussurro. A Milano, però, chi ha i capelli bianchi lo ricorda come un manager pubblico. Nel 1985, in questi stessi giorni di inizio gennaio, era il presidente dell’Amsa, su cui si schiantò la responsabilità di ripulire la città coperta da 90 centimetri di neve. Autobus bloccati, tibie spezzate sui lastroni di ghiaccio. Fabbriche ferme, scuole chiuse e bambini in festa. Fu lui, sotto pressione di un inferno bianco, a inventarsi la soluzione dei carri armati, spediti dall’esercito a ripulire i viali.
Scusi, che c’entra la Corsica?
“Dal 1985 non ci ho mai voluto andarci. Fu lì, nel mare davanti all’isola, che si formò quell’enorme area di depressione che attirò sulla Lombardia l’ondata di neve che ci seppellì. Da allora mi è rimasta antipatica...”
Non un’antipatia politica...
“No meteorologia. I venti antartici, il vortice depressionario... Non ne ho più voluto sentire parlare”.
Lei però si occupava di rifiuti...
“Sono arrivato lì nel 1982. Ho accompagnato la trasformazione da Amnu, Azienda municipalizzata nettezza urbana, a Amsa: la prima differenziata, le campane del vetro, un nuovo nuovo logo... Quello che si usa ancora. Ci occupavamo di rifiuti, ma avevamo anche il compito di pulire la neve. Avevamo le lame per lavorare sui dieci, quindici centimetri, quelli che si potevano prevedere. Avevamo da spargere sale e salamoia, ma con scorte ragionevoli. Lì ce ne volevano montagne. E le saline di Margherita di Savoia erano assaltate, non ce ne fornivano. Un disastro. C’era ghiaccio spesso trenta centimetri. Anche la segatura aveva prezzi assurdi”.
Da dove nacque l’idea di chiedere aiuto ai carristi...
“I Leopard? Idea mia... Sono ufficiale degli Alpini, della riserva. Non sapevo più a che santo votarmi. Ho elevato preghiere e anche fatto l’esatto contrario... Alla fine ho chiamato lo Stato maggiore. Non ho chiesto camion, li avevamo anche noi e non bastavano. Ho chiesto i carri armati. Sono stato l’unico presidente di municipalizzata a farlo. Non avvenne a Torino, Varese, Como. Col primo tank arrivato in corso Sempione c’ero anche io. Quando si ribaltavano i pezzi di ghiaccio sembrava l’esplosione di una mina. Qui avevamo migliaia di chilometri di strada da tenere liberi: era l’unica soluzione”.
Come lo affrontaste?
“Avevamo 2.700 dipendenti, tutti sotto pressione. Si rischiava, sul serio, uno sciopero: sarebbe stata la paralisi. Partecipai a non so quante assemblee, puntai sullo spirito di corpo. E sui servizi: lasciai aperte tutte le mense 24 ore al giorno, per i dipendenti e per le famiglie. Il vero merito andò ai netturbini di Milano, i cavalieri bianchi. Scarpe da soldato della ritirata di Russia, grandissima volontà. Certo, fra gli spalatori c’erano gli studenti, che venivano per raccogliere qualche spiccio, ma la città la pulirono soprattutto i netturbini. E oggi lo posso anche dire: fra i dipendenti calò anche il tasso di malattia. Così si uscì dalla crisi”.
Il sindaco di allora era Carlo Tognoli.
“Un amico. Ma era in difficoltà serie. Chiamava a ogni ora del giorno. Io giravo la città, ma non in auto. Alla fine, gli dissi: “Senti, se continui così l’azienda sciopera: io sono qui, sul camion, con la tuta dell’Amsa e la biancheria lunga di lana, ho qui una scopa. Se vieni ce n’è una anche per te“. Si mise tranquillo”.