Milano, 1 ottobre 2016 - Anche se ammette di essere un "ragazzo del ’67" cresciuto a formaggini Invernizzi, Paolo Fiorina non è tornato a lavorare in Italia perché gli mancava la pizza. Assistant professor alla Harvard Medical School, era al Boston Children’s Hospital da 12 anni. "Sono partito per gli Usa il 12 ottobre del 2004. Mi ricordo il giorno perché è il mio compleanno". I 49 anni li compirà all’ospedale Sacco, al Pediatric Clinical Research Center Romeo ed Enrica Invernizzi dove dirige il Centro di riferimento internazionale per il diabete mellito di tipo 1, una patologia sulla quale il suo gruppo di ricerca americano, col quale "continuerà la collaborazione", ha firmato metà degli studi di terapie precliniche oggi disponibili nel mondo. Cosa l’ha spinto a tornare, in Italia e alla Statale, che l’ha riguadagnato nel pacchetto come professore associato di Endocrinologia? "La serietà del progetto. Sono stato cercato da altri istituti italiani in passato ma non l’avevo trovata, soprattutto dal punto di vista dei fondi: si può avere tutta la buona volontà, ma se mancano non puoi disporre di attrezzature all’avanguardia. Alcune che ho qui non le avevo nemmeno a Boston". E sì che a Harvard quasi tutte le cattedre di medicina sono finanziate da filantropi. Al Sacco, il gruppo di Fiorina e della collega Francesca D’Addio, che l’aveva già seguito dal San Raffaele a Boston, svilupperà farmaci innovativi e ne creerà di nuovi. "Lavoreremo anche sulla diagnostica, oggi per molte complicanze è necessario ricorrere a strumenti invasivi". Le complicanze, quelle che abbassano "di 10-13 anni" la durata della vita media di un diabetico; e fino a pochi anni fa per tutti, oggi ancora per moltissimi malati, il diabete non aveva cura a parte l’insulina, che evita la morte diretta da iperglicemia rendendoli dipendenti.
Il Tipo 1 che studia Fiorina è quello dei bambini, colpisce con picchi a 4 e 14 anni d’età. Alla fine, il professore è tornato in Italia "per realizzare il mio sogno: trovare la cura. Non ci siamo mai stati così vicini". Ci proverà attirando altri “cervelli” (sul suo tavolo i cv di un iraniano, di un croato, di una tunisina), e collaborando con altri centri nel mondo perché "la scienza non ha confini". Ma lo farà in Italia, perché "il sogno è sempre fare le cose bene". E (cosa rara) la proposta più "seria" era qua.