
Fabrizio Briganti, marito di Maria Spina Sopra
MIlano, 8 gennaio 2018 - La vicenda del suo pacemaker difettoso torna davanti ai giudici, ma lei è come sempre immobile in un letto, priva di coscienza. Sono più di sette anni ormai che Maria Spina, infermiera oggi 48enne, tre figli, è in stato vegetativo permanente senza alcuna speranza di risveglio. Per il tribunale, colpa del mancato funzionamento del defibrillatore che portava addosso. Per questo, quasi tre anni fa, per due dirigenti dell’azienda che importa e distribuisce lo strumento di fabbricazione americana, arrivarono le condanne del giudice per lesioni colpose gravissime a 2 mila euro di multa e un importante principio generale affermato: anche i produttori e non solo i medici rispondono dei danni procurati ai pazienti dai meccanismi che dovrebbero invece aiutarli a vivere meglio. E il risarcimento disposto a favore dei familiari fu di un milione di euro.
Nel dramma capitato a Maria, la stessa casa madre californiana aveva disposto il “richiamo” dei cardioverter degli stessi tipo e serie di quello portato dalla donna, perché senza un aggiornamento del software c’era il rischio di un cattivo funzionamento. Nella notte fatale del 19 ottobre 2010, quando la donna ebbe un arresto cardiocircolatorio, stando all’accusa la macchinetta non entrò in funzione per colpa di un black-out elettrico, «contribuendo in questo modo a causare nella viva lo stato di coma vegetativo per via della mancata defibrillazione del sistema».
Nel processo che inizierà il primo febbraio davanti alla quinta Corte d’appello milanese, i due dirigenti sosterranno, come sempre, che il pacemaker sarebbe in realtà entrato in funzione pur senza riuscire a contrastare gli effetti della crisi cardiaca subita da Maria. Tesi però negata dalla perizia medico legale disposta a suo tempo dal giudice Manuela Cannavale. Appello hanno presentato anche il pg Massimo Gaballo per l’accusa e gli avvocati Nicola Brigida e Marcello Gentili per i familiari della donna. Insieme contestano che la malattia cardiaca dell’infermiera sia stata «concausa» di quanto avvenuto, come ritenne invece il primo giudice. Per loro, i produttori del pacemaker difettoso dovrebbero rispondere integralmente del danno irreversibile causato a Maria dal mancato funzionamento. E per lo meno raddoppiare il risarcimento in denaro già versato.