LAURA LANA
Cronaca

Strage di Paderno, terapia per genitori e ragazzi. “Bisogna raccontare la verità anche ai piccoli. O si sentirebbero traditi”

Il 31 agosto Riccardo ha ucciso con 68 coltellate il fratellino Lorenzo e i genitori Daniela e Fabio. In città da tre settimane opera un’équipe di dieci psicologi che si sta occupando della “emergenza di comunità”

La famiglia di Paderno sterminata dal figlio 17enne

Lorenzo C., 12 anni, papà Fabio e mamma Daniela: uccisi da Riccardo, 17 anni

Paderno Dugnano (Milano) – È una comunità che sta cercando di superare un trauma profondo quella di Paderno Dugnano. La notte tra il 31 agosto e il primo settembre, il 17enne Riccardo ha ucciso con 68 coltellate il fratello Lorenzo di 12 anni e i genitori, Daniela e Fabio. Ora Riccardo si trova al carcere minorile di Firenze: è arrivato nei giorni scorsi, trasferito dal Beccaria subito dopo l’incontro con i nonni. A breve sarà affidato alla psichiatra del carcere. Il suo avvocato, Amedeo Rizza, punta su una consulenza psichiatrica, effettuata da un esperto, per una successiva richiesta di perizia, affinché venga accertato se al momento del triplice omicidio il giovane avesse o meno un vizio di mente. Giovedì scorso, nella città dell’hinterland milanese, si sono celebrati i funerali, con l’omelia dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini. Già nei giorni precedenti, la città ha iniziato a dare un supporto concreto a chi è più esposto al trauma: compagni di scuola, amici, conoscenti di Lorenzo e Riccardo. Adolescenti e ragazzini poco più che bambini. Ma l’intervento di sostegno, con l’approccio Emdr, è stato pensato anche per genitori, insegnanti e per tutti quegli adulti che, da tre settimane, stanno vivendo un dramma personale e collettivo.

Giada Maslovaric è una psicologa e psicoterapeuta, supervisore e facilitator Emdr Italia. Da quasi tre settimane è capo di un’équipe di dieci professionisti, che si sta occupando della “emergenza di comunità” che sta vivendo Paderno Dugnano, dopo la strage in famiglia.

Giada Maslovaric
Giada Maslovaric

Dottoressa, di chi vi state prendendo cura?

“A Paderno non sono le persone a essere fragilizzate e colpite. È tutta la comunità. La città intera. Si percepisce dolore ovunque, anche entrando in un bar a fare colazione”.

Come state procedendo?

“Abbiamo prima incontrato i genitori, per ascoltare le loro domande, le loro paure e dare delle indicazioni. Poi siamo entrati nelle classi dei compagni di Lorenzo e Riccardo. Gli incontri di gruppo servono per rielaborare il ricordo più disturbante. Non è un intervento di cura di una psicopatologia, ma di prevenzione, di accompagnamento per far sì che non esplodano eventi da questo stress post traumatico. È come se si fosse rotto uno specchio e ogni persona ne avesse un pezzo in mano, che può tagliare”.

Qual è l’aspetto più traumatizzante che emerge da questi incontri?

“Il fatto che la scia di omicidi sia iniziata dal fratello minore. Questo manda in tilt uno schema. ’E se accadesse a me? E se succedesse anche nella mia famiglia?’. C’è poi il marchio di Caino”.

Cos’è?

“Il processo di identificazione. ’Sarò sempre il compagno di, il professore di, la città della strage’. Emerge, infine, il senso di colpa del sopravvissuto: ’Ecco, avevo litigato con lui, non ero entrato in sintonia, e ora non c’è più e non posso riparare’. Sono solo alcuni esempi, ma danno l’idea dell’enorme complessità del trauma vissuto e dell’intervento in atto”.

Questi sono esempi di ragazzi che riescono a verbalizzare. E gli altri?

“Certamente abbiamo riscontrato anche difficoltà a esprimere quello che si sente, così come livelli di sofferenza molto alta. In questi casi, il congelamento, il freeze è normale. Anche i flashback intrusivi in un evento violento, improvviso, imprevedibile, evitabile. Questi caratteri rendono la rielaborazione più complessa. Ci sono però una notizia cattiva e una buona”.

Quali?

“La cattiva è che i giovani hanno una vulnerabilità più importante. Il loro è un inferno senza fine, perché vivono nel presente. La buona è che, se accompagnati correttamente, non scontano l’onda lunga come invece gli adulti”.

I genitori che reazione hanno avuto?

“L’11 settembre, alla biblioteca Tilane, è stato organizzato un incontro aperto. La sala era piena, c’era gente in piedi in fondo alla sala. La ferita della comunità si percepisce. Il fatto di riconoscersi in reazioni comuni, simili, ha fatto rompere l’isolamento”.

Come fa un genitore ad accogliere la disperazione di un figlio che ha perso un compagno, perché ucciso o perché si trova in carcere?

“Bisogna raccontare la verità, anche ai più piccoli. L’importante è che siano i genitori, affettivamente presenti e protettivi. Altrimenti, i figli potrebbero sentirsi traditi, ricevendo informazioni da altri flussi e sentendo che in casa non se ne può parlare. Resterebbero soli con i loro mostri interiori. Come mamma, so che nessun genitore vorrebbe dire cose simili ai propri figli. Noi non possiamo impedire a un ragazzo di soffrire, ma possiamo accompagnarlo”.

È la lezione da imparare?

“Sì. Dobbiamo sostare di più con loro, guardarli negli occhi. Mio figlio maggiore, parlando, mi ha detto ’Non era meglio che si fosse suicidato?’”.

Cosa si risponde a una domanda così forte?

“L’ho guardato e gli ho detto ’Capisco la rabbia, ma non credi ci sia una terza via? Non credi che, se l’angoscia è così profonda, si possa fare altro?’. Ecco, dobbiamo imparare a nutrire con altre vie, belle e percorribili”.

È difficile, forse impossibile, trovare una spiegazione a quello che è accaduto.

“Il fatto stesso che non si riesca a comprendere significa che non fa parte dei nostri schemi. Quindi, in un certo senso va bene non capire”.