
Giuseppe Campari, l'ex macellaio che sfama i bisognosi della Centrale e di Porta Venezia
Milano, 22 luglio 2016 – Il giro inizia presto. Verso le otto della mattina. Pane e marmellata. "La faccio io, in casa, con la frutta fresca". In tutto sono circa cinquanta di panini. Come si dice, una goccia nell’oceano. Poi si carica tutto sulla vecchia bici nera attrezzata con due grandi portapacchi. Prima fermata Stazione Centrale.
È uno strano soggetto di settant’anni, nato a Paderno Ponchielli (Cremona) ma da sempre a Milano, l’angelo dei disperati che affollano la Centrale e i Bastioni di Porta Venezia. Indossa una maglietta della Folgore e un caschetto da ciclista anni 60. Alla mattina sono i panini con la marmellata. Al pomeriggio l’acqua fresca, qualche pizzetta, la frutta. Ormai è una celebrità tra i senzatetto, vecchi e nuovi, di Milano.
Quando si avvicina alla colonia di eritrei accampati a Porta Venezia gli basta un fischio per essere accerchiato. “Campari! Campari!”, si sente chiamare negli accenti più diversi. È il suo nome. Giuseppe Campari. “Sì, Campari. Ma da mangiare”, scherza riferendosi alla sua ex professione. Macellaio. Con un negozio in via Panfilo Castaldi. “Adesso c’hanno aperto un ristorante svedese. Già, svedese. Non lo so mica cosa fanno da mangiare gli svedesi”.
Quello di macellaio era un lavoro. Quella di adesso - la mensa itinerante per gli ultimi della città - una missione. Portata a termine però con la stessa professionalità. Anche qui ci sono infatti i fornitori. Ristoranti, panettieri, bar, "i miei amici macellai". Da un locale in via Masera, per esempio, esce con un enorme sacco di carta pieno di panini avanzati. Ma alla mattina c’è un ristorante che gli lascia gli avanzi della sera prima. E anche altri negozi gli fanno trovare un piccolo aiuto per quelli lui chiama “i miei fratelli in difficoltà”. Da almeno 15 anni. Così, grazie a lui, si svela una mappa inedita della città. Una mappa di umanità. Fatta di piccoli gesti. Come il mettere il pane avanzato in un sacco di carta da consegnare a quel buffo signora in biciletta, piuttosto che buttarlo nel bidone.
Il lavoro, quello vero, poi ci pensa lui a farlo. Il Campari, del resto, ha un curriculum che parla da solo. È dagli anni 70 che si occupa degli ultimi. Da quando cioè Fratel Ettore aprì in città i primi rifugi. Fu una rivelazione per il giovane Giuseppe. “Una persona incredibile, che non si può neanche descrivere”. Il rifugio di via Sammartini - "dove per la prima volta ho capito cos’è la carità cristiana" - divenne presto il punto di raccolta della disperazione di tutta la città. Attirando anche le critiche di chi sosteneva, e sostiene, che il problema della povertà e dell’emarginazione non si risolve certo così.
Fratel Ettore morì nel 2004 e adesso quel rifugio si chiama Hub per richiedenti asilo. Che non è proprio la stessa cosa. Ma in fondo che importa. Sempre di bisognosi si tratta. “Io non faccio distinzione. – dice Campari – A me non interessa niente il colore della pelle, la religione, da dove viene uno, dove va. Se ha fame e vuole un panino con la marmellata io glielo do. Se ha sete gli do un bicchiere d’acqua”. Proprio come il suo maestro monaco. Che aveva un’unica, semplice, regola: aiutare tutti.
Soprattutto senza mai aspettarsi qualcosa in cambio. “Quello che vedo nei loro occhi mi basta. L’amore che possono darti quegli sguardi non lo trovi da nessuna parte”. Certo, lui gira senza soldi, “Perché tante volte li usano per prendersi da bere e a me non va di pagargli la ciucca”, e in qualche occasione ha dovuto fronteggiare situazioni pericolose, “qualche volta ci vuole un po’ di coraggio”. Però non l’ha mai sfiorato il dubbio che quello che fa possa essere inutile. Anche se, magari, nessuno se ne accorge. Perché Il Campari ha una massima in cui crede più di ogni altra cosa: “Non fare mai del bene se non hai il coraggio di accettare l’ingratitudine”. Già, anche Fratel Ettore sarebbe d’accordo.