Milano, 11 dicembre 2019 - «Siamo stati noi». È fine anno del 1969: il ballerino Pietro Valpreda è in carcere da due settimane, il ferroviere Pino Pinelli è volato giù da una finestra della questura, gli inquirenti e i giornali (con poche eccezioni, tra loro il Giorno ) non hanno dubbi: la bomba nella Banca nazionale dell’Agricoltura l’hanno messa gli anarchici. Però in un cenone di San Silvestro tra camerati a 300 chilometri da Milano, il giovane capo della cellula neonazista di Ordine nuovo a Mestre, Delfo Zorzi, dice proprio così al suo amico e sodale Martino Siciliano: «Siamo stati noi». Quando Siciliano racconta questo particolare al giudice milanese Guido Salvini sono passati più di vent’anni da quella “cena del tacchino” divorato dai due ragazzi. È l’inizio degli anni ’90 e si è esaurita anche la seconda ondata di processi per la strage di Piazza Fontana. Dopo i neri padovani Franco Freda e Giovanni Ventura, sono stati assolti definitivamente, sempre a Catanzaro, anche il leader romano del gruppo di estrema destra Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie, insieme al padovano Massimiliano Fachini. La bomba del 12 dicembre è ancora un mistero.
Ma oltre a Siciliano , collabora con il giudice Salvini anche Carlo Digilio, negli anni ’60 quadro coperto del gruppo neofascista, esperto di armi ed esplosivi. Dai numerosi interrogatori di Siciliano e Digilio arrivano gli spunti per la nuova istruttoria che la Procura apre sulla strage. Il pm Grazia Pradella mette sotto inchiesta Zorzi, il dottor Carlo Maria Maggi, medico di base veneziano e all’epoca leader di Ordine nuovo per il Triveneto, e Giancarlo Rognoni, capo del gruppo milanese La Fenice. Siciliano racconta di tutte le imprese compiute da Ordine nuovo nel Veneto più di vent’anni prima, del ruolo fondamentale del dottor Maggi e del giovanissimo Zorzi compreso quell’esplicito «siamo stati noi». Digilio va oltre, ricorda un incontro con l’amico il 7 o l’8 dicembre ’69 in Canal Salso, a Mestre, pochi giorni prima della strage, quando Zorzi apre il portabagagli della vecchia Fiat 1100 che gli ha messo a disposizione il dottor Maggi e gli mostra delle cassette metalliche con l’esplosivo.
Digilio, che è pure un collaboratore della rete Cia del Triveneto, parla anche di un casolare a Paese, nel Trevigiano, dove i fanatici neonazisti tenevano armi ed esplosivo. Ancora una volta la verità sembra a un passo. Ma ancora una volta, alle condanne all’ergastolo inflitte in primo grado nel 2001 a Maggi, Zorzi (da anni ormai con cittadinanza giapponese) e Rognoni, seguiranno le assoluzioni in Appello e Cassazione con la formula della vecchia insufficienza di prove (Digilio a parte, che si autoaccusa della strage e viene creduto). Però nella sentenza tombale del 2005 la Suprema Corte nell’assolvere i mestrini e il milanese punta di nuovo il dito, vent’anni dopo, contro Freda e Ventura. Non possono essere processati di nuovo, scrivono i giudici, ma viste le nuove prove raccolte, i «responsabili» della strage sono loro. Che intanto però restano liberi e senza condanna addosso. Quello di Piazza Fontana, comunque, ora non è più un mistero: insieme a Digilio, Freda e Ventura, a mettere la bomba furono altri uomini di Ordine nuovo. (9 - continua)