Milano, 4 dicembre 2019 - Il nome in codice è agente Zeta. Al secolo si chiama Guido Giannettini, giornalista romano di destra ma, soprattutto, grande esperto di tecniche militari, specialista dei metodi di controguerriglia contro possibili invasioni e insurrezioni dei comunisti. E spione a libro paga del Sid, il servizio segreto militare. Quando nella primavera del ’72, dopo gli arresti in Veneto del leader nazionale di Ordine nuovo Pino Rauti e dei camerati Franco Freda e Giovanni Ventura, l’inchiesta sulla “pista nera” arriva finalmente a Milano - dove già è tornato, da Roma, il processo agli anarchici - gli inquirenti sembrano a un passo dalla verità.
Il giudice Gerardo D’Ambrosio, che insieme ai pm Rocco Fiasconaro ed Emilio Alessandrini conduce le indagini, per prima cosa scarcera Rauti (che comunque sta per essere eletto in Parlamento nelle file del Msi), poi interroga a lungo in carcere Ventura che della catena nera sembra l’anello debole. E difatti il libraio-editore comincia a modo suo ad ammettere, per esempio gli attentati sui treni in una notte di agosto di quel 1969 e prima ancora le bombe scoppiate a Milano il 25 aprile e subito attribuite agli anarchici. Però, sostiene Ventura, lui in realtà era di sinistra e agiva nella cellula neonazista di Freda solo per eseguire gli ordini di un agente del Sid, per l’appunto Guido Giannettini, al quale tutto riferiva.
È la prima volta che quel nome entra nell’inchiesta. Dopo altri accertamenti, nel giugno del ’73 il giudice D’Ambrosio chiede ufficialmente al Sid se Giannettini sia uno dei loro 007. La risposta viene decisa a livello politico. Dopo una riunione a Palazzo Chigi, nel luglio di quell’anno, il governo spinge i vertici del servizio ad opporre alla magistratura il segreto politico-militare. Fra l’altro, giocando d’anticipo, Giannettini è già stato fatto espatriare proprio dal Sid per sottrarlo alle indagini. L’inchiesta milanese però non si ferma. Al magistrato inquirente viene finalmente consegnato un appunto stilato dai carabinieri più di tre anni prima, il 16 dicembre 1969, appena quattro giorni dopo gli attentati di Milano e Roma. È una fonte riservata del Sid che parla di «un qualche collegamento (degli attentati, Nda ) con quelli organizzati a Parigi nel ‘68 e la mente e l’organizzazione di essi dovrebbe essere certo Y. Guerin Serac, che risiede a Lisbona dove dirige l’agenzia Ager-Interpress (...) è anarchico (...) e a Roma ha contatti con Stefano Delle Chiaie». In realtà Serac non è anarchico ma di estrema destra. Francese cattolico e tradizionalista con un passato nell’esercito, diventerà un mercenario al servizio di qualunque dittatura di destra.
D’Ambrosio sembra a un passo dal disvelamento dell’intera rete di complicità, ma qualcuno lo vuole fermare. E la mossa clamorosa che allontana di nuovo l’inchiesta da Milano è quella del procuratore capo Enrico De Peppo. È lui che chiede il trasferimento del processo agli anarchici arrivato da Roma. Sostiene che la città è troppo coinvolta nella strage, ci sarebbe il rischio di disordini e di scontri tra gruppi di destra e di sinistra. È l’iniziativa che cambierà la sorte dell’intero processo, ma l’opinione pubblica vi assiste senza una vera reazione. E così la Cassazione può dar ragione a De peppo, togliendo il processo alla città e assegnandolo alla lontanissima Catanzaro.
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