ANDREA GIANNI
Cronaca

La classe media è in crisi: un milanese su quattro rinuncia alle cure e il 70% taglia sul cibo. Non bastano 50mila euro l’anno

Ricerca Cisl su lavoratori e pensionati colpiti dal carovita. Un quinto ha ritardato il pagamento delle bollette. Crescono i debiti. Lanzoni: "Il lavoro non basta più, contrattazione per aumentare salari"

L'allarme povertà a Milano inizia a preoccupare anche la classe media

L'allarme povertà a Milano inizia a preoccupare anche la classe media

Un milanese su quattro, di fronte al costo delle vita in aumento, è stato costretto a rinunciare a cure mediche, perché insostenibili per il bilancio familiare. Il 71,2% ha dovuto risparmiare sulla spesa acquistando "meno prodotti o di qualità inferiore". Oltre la metà degli intervistati, inoltre, ha dovuto tagliare "una parte dei consumi", come riscaldamento ed elettricità. Uno su cinque ha ritardato il pagamento delle bollette, e circa il 9% non è riuscito a versare in tempo le rate di mutui e finanziamenti. E, per far fronte alle spese, hanno dovuto chiedere denaro in prestito, indebitandosi ulteriormente.

Una fotografia allarmante scattata da una ricerca della Cisl Milano Metropoli e del centro studi del sindacato, BiblioLavoro, sulle condizioni del cosiddetto "ceto medio", colpito dal carovita. Non persone in situazioni di povertà e disagio cronico, ma milanesi che hanno un lavoro (la fascia più rappresentata ha una Ral tra 28mila e 50mila euro) e nell’83% dei casi un’abitazione di proprietà. Un campione di 2.953 uomini e donne residenti a Milano o nei Comuni dell’area metropolitana, il 44,8% con figli a carico, che hanno risposto a un questionario con 20 domande, sulle condizioni di vita e sulle rinunce imposte da costi in aumento a fronte di stipendi che non crescono.

“Si tratta di una fascia sociale composta da persone con un lavoro a tempo indeterminato e un reddito fisso – sottolinea Eros Lanzoni, segretario della Cisl milanese – che fino a poco tempo fa era considerata al riparo dal rischio di cadere in povertà o comunque di dovere fare grossi sacrifici nell’area più produttiva del Paese".

I dati parlano chiaro. Nel 2019 chi riusciva a mettere da parte almeno il 20% della busta paga mensile era il 43,6%, mentre nel 2023 la quota è scesa al 17,6%. Il 32,3% ha dichiarato di non essere in grado di fronteggiare in autonomia anche una spesa imprevista relativamente bassa, di 1500 euro. Per quasi la metà, il 46,7%, è "economicamente proibitivo" trascorrere del tempo libero in città, ad esempio con una cena al ristorante, concerti, cinema o teatro. Le rinunce non riguardano solo gli svaghi, ma anche sport, salute, spesa alimentare, servizi essenziali e "beni per i figli o familiari fragili", con sacrifici che tendono ad aumentare fra giovani, single (in particolare separati o divorziati), donne, stranieri e precari. Gli intervistati hanno espresso giudizi preoccupanti sull’abitare (il 65,5% ritiene i costi ingestibili), e tra le battaglia che il sindacato a loro avviso dovrebbe portare avanti c’è quella sui salari, sulle politiche abitative e sulla sanità. "È disumano pensare che qualcuno non si possa curare perché i tempi di attesa della mutua sono troppo lunghi – scrive un intervistato – e non ci si può rivolgere alla sanità privata perché costosa".

Si fa strada, quindi, l’idea di legare lo stipendio alla realtà economica o geografica: il 7,2% chiede che sia indicizzato al contesto territoriale con salari più alti, quindi, in una città dai prezzi alle stelle come Milano. "La prima strada da seguire è il potenziamento della contrattazione territoriale – conclude Lanzoni – e poi insistere sulla contrattazione aziendale. È lì che si possono trovare misure condivise".