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Preatoni sfida la politica: "Uscire dall’euro si può l’Italia ne guadagnerebbe"

In un libro l’intervista del direttore de Il Giorno Giancarlo Mazzuca all’imprenditore

A sinistra il direttore de Il Giorno Giancarlo Mazzuca, a destra Ernesto Preatoni

Milano, 11 ottobre 2014 - Perché da sette anni l’economia dell’Italia va a fondo? Perché alcuni Paesi dell’Unione Europea crescono, mentre altri sono sull’orlo del fallimento? E ancora: perché francesi e inglesi sono arrivati al punto di immaginare un referendum per liberarsi di quest’Europa? Sono le domande che i politici sono stati costretti a porsi dopo i risultati delle elezioni europee. Quesiti che sono alla base anche del libro «La vita oltre l’euro», in libreria dal 15 ottobre, frutto di una lunga e approfondita conversazione fra l’imprenditore Ernesto Preatoni e Giancarlo Mazzuca, direttore del «Giorno». Il libro verrà presentato martedì a Milano (a Palazzo Cusani, via Brera 15, ore 18.30). Insieme ai due autori, l’economista Paolo Savona, che ha firmato la prefazione. Di seguito, per gentile concessione dell’editore Rubbettino, un’anticipazione del volume.

Mazzuca: Nonostante la gente abbia ormai preso coscienza dei limiti dell’euro, perché i politici e i burocrati continuano, invece, a tacciare di antieuropeismo quanti mettono apertamente in rilievo i limiti della moneta unica? 

Preatoni: «Perché quegli stessi che volevano l’Europa unita sono stati gli sponsor dell’euro. Si è arrivati a un’identificazione tra l’Unione e la moneta che è paradossale, oltre che sbagliata. L’Unione, come area comune di scambi, aveva ben funzionato e aveva garantito la pace. Esistono studi approfonditi che dimostrano inequivocabilmente che l’aumentare degli scambi commerciali tra i Paesi è determinante ai fini della conservazione della pace. Sono anche convinto che la lunga pace sia stata determinata prevalentemente dall’equilibrio degli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica».

In che modo dovrebbe cambiare anche il progetto comune europeo in modo da tornare a funzionare?

«Intanto, dovrebbero iniziare a smetterla di calare direttive dall’alto, proprio come hanno fatto con l’euro, piovuto direttamente da Bruxelles».

La macchina burocratica europea, peraltro, è un “mostro divora-denaro” che nessuno, fino a oggi, ha mai osato mettere in discussione, almeno in Italia. Per quale motivo?

«Ma è chiarissimo: c’è stato un momento in cui la parte sana del Paese, quella produttiva, quella che pagava le tasse e non si fidava di Roma, sperava di delegare alla Ue la gestione dell’economia. Pia illusione; è accaduto l’esatto opposto: una balcanizzazione dell’Europa. A Bruxelles ognuno pensa al proprio orticello e porta a casa quello che può».

Resta il fatto che, nella precedente tornata elettorale continentale, il fronte antieuro rappresentava uno sparuto gruppo di politici mal organizzati, mentre oggi si tratta di un movimento trasversale.

«Anche su questo punto ci sarebbe molto da discutere perché ci sono movimenti politici «vecchi» che hanno cavalcato il malcontento non tanto perché credono in maniera convinta e ragionata al ritorno alla lira, ma solo per una questione di marketing politico. Pensi, ad esempio, alla Lega, che ha vissuto una fase di grave crisi e che, grazie alle critiche all’euro, ha ottenuto un certo rilancio».

Che ruolo hanno avuto le banche in questo pasticcio della moneta unica?

«Questa è un’ottima domanda: direi che il ruolo delle banche è in qualche modo secondario nel senso che, politicamente parlando, non credo abbiano avuto un peso determinante. Più d’una, se uscissimo dall’euro, rischierebbe certamente di fallire, perché gli istituti di credito hanno la pancia piena di titoli pubblici che, in tal caso, sarebbero sottoposti a svalutazione. D’altro canto, gli istituti bancari – che sono i debitori per antonomasia, considerando che i depositi rappresentano debiti verso la clientela – rimborserebbero questi crediti non in euro, ma in lire, e questo per loro potrebbe rappresentare un grande vantaggio».

Capiamoci meglio: se una banca, a causa dell’uscita dall’euro, dovesse saltare, come faremmo?

«Ci comporteremmo come si fa con qualunque altra impresa privata che fallisce. Ciò significa che se un istituto di credito si ritrova con perdite che superano di una certa percentuale il capitale sociale, quest’ultimo va abbattuto e gli azionisti devono provvedere a ricostituirlo. Se gli azionisti non hanno la volontà o le risorse per ricapitalizzare l’istituto, le alternative possono essere solo due: o portano i libri in tribunale oppure lo Stato entra nel capitale della banca fallita e, di fatto, la nazionalizza. La nazionalizzazione delle banche – l’ho già scritto tante volte – può essere una strada intelligente: in Islanda questo è un modello di salvataggio che ha mostrato di poter funzionare bene. È avvenuto nel 1997 in Svezia e lo Stato due anni dopo ha riprivatizzato gli istituti di credito guadagnandoci pure. Già oggi gli Stati dell’Unione – anche se non hanno nazionalizzato le banche – ne hanno salvato diverse, facendosi carico delle perdite degli istituti e, quindi, scaricandole sui contribuenti».

Al di là del fatto che Draghi è italiano, che giudizio dà sul suo operato?

«Mi sembra che Draghi sia soprattutto un bravo politico. Tecnicamente sarà anche un ottimo banchiere, ma, forse per non rompere gli equilibri con la Germania, non ha mai preso davvero di petto i problemi dell’eurozona. È un fatto grave. Altrettanto gravi sono state le scelte che la Bce ha operato quando ha annunciato il nuovo programma di finanziamenti alle banche europee, a giugno: i mercati hanno risposto in maniera convinta, a conferma che questa era la cosa giusta da fare per ridare slancio all’economia europea. Sono stato fra i primi a dirlo e ora se ne sono accorti anche a Bruxelles».