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Per cinque anni , tra il 2014 e il 2019, ha violato il contratto di esclusiva sottoscritto prima con l’Asst Valle Olona e poi con l’Asst Sette Laghi, svolgendo attività professionale retribuita per un giorno a settimana al Centro di ricerca europeo di Ispra. In quel periodo, avrebbe quindi incassato illegittimamente sia i soldi per le prestazioni extra moenia sia il surplus di stipendio pubblico garantito dalla scelta di non lavorare per altri. Il totale è stato calcolato al centesimo dalla Guardia di Finanza: 407.116,62 euro. Denaro che, al netto dei 1.742,94 euro percepiti per la libera professione intramuraria, il primario di Chirurgia d’urgenza Saverio Chiaravalle, varesino classe ’58 oggi responsabile del Pronto soccorso del Policlinico San Donato, dovrà interamente ridare alle Asst Valle Olona (162.244,85 euro) e Sette Laghi (243.128,83 euro).
La storia inizia il 14 giugno di tre anni fa, quando i responsabili dell’azienda socio sanitaria territoriale del Varesotto si rivolgono alla Procura della Corte dei Conti della Lombardia per informarla del possibile danno erariale provocato dal dottor Chiaravalle, nel frattempo finito nel mirino di un’inchiesta delle Fiamme Gialle.
Gli accertamenti investigativi ricostruiscono che dal primo gennaio 2014 al 31 maggio 2019, ogni martedì, il primario di Pronto soccorso (prima a Tradate e poi a Varese) ha svolto attività ambulatoriale nel Centro di Ispra, senza alcuna autorizzazione da parte delle Asst di riferimento. Sotto i riflettori finiscono non solo i 102.950 euro ricevuti per l’incarico settimanale, ma anche le voci dello stipendio "ufficiale" come indennità di esclusività, retribuzione di risultato, risorse aggiuntive regionali e fondo di perequazione.
Contestazioni che, come si ricorda nella sentenza dei giudici contabili appena pubblicata, portano al licenziamento senza preavviso di Chiaravalle dall’Asst Sette Laghi (con provvedimento del 30 maggio 2019) e a una condanna patteggiata di un anno e otto mesi di reclusione (con pena sospesa) per il reato di truffa aggravata. Poi arrivano la citazione della Corte dei Conti e il successivo processo. I legali del primario eccepiscono innanzitutto la competenza dei giudici lombardi, sostenendo che la presunta condotta illegittima si sarebbe concretizzata "presso la sede di un ente avente sede all’estero, come comprovato dalla circostanza che l’accordo istitutivo del Centro di ricerca, siglato nel 1959 tra il Governo italiano e l’Euratom, prevedeva il suo inquadramento quale diramazione diretta della Commissione europea". Entrando nel merito, la difesa afferma che l’attività professionale esterna sarebbe stata svolta "senza pregiudicare in alcun modo le prestazioni istituzionali derivanti dal contratto di lavoro con le aziende sanitarie", aggiungendo che "molto spesso" Chiaravalle prendeva ferie o permessi di martedì, "in modo da non sottrarre energie lavorative al proprio impegno di lavoratore subordinato", e che le ore perse "venivano recuperate nel corso di ciascun mese di competenza".
In ogni caso , la conclusione, "l’eventuale ritenuto pregiudizio erariale non potrebbe in alcun modo essere imputato a dolo ovvero a colpa grave, atteso che il quadro legislativo di riferimento poneva seri problemi interpretativi". Una linea bocciata (quasi) interamente dal presidente della Corte Vito Tenore, che in primo luogo ha confermato la competenza dei giudici contabili lombardi, considerato che il danno erariale "è stato prodotto" non nel Centro di ricerca ma nelle due Asst. Passando al resto, per la Corte il quadro normativo "è oltremodo chiaro e univoco" e ruota attorno al decreto Bindi, che dal 1999 impone ai dirigenti medici del Servizio sanitario nazionale di scegliere se esercitare in regime di esclusiva (con esercizio intramurario dell’attività professionale) o meno. In caso di prima opzione, la legge prevede che la violazione del patto con l’istituzione pubblica sia punita "con la risoluzione del rapporto di lavoro e la restituzione dei proventi ricevuti". Tradotto: Chiaravalle sapeva benissimo che non stava rispettando le regole, mettendo così in atto una condotta dolosa. Quindi deve risarcire tutto, senza possibilità di accedere a una riduzione dell’addebito.