
Alberto Casiraghy nella sua tipografia
Osnago (Lecco) – Affondata nel ricco verde di Osnago, in piena Brianza, canta e sferraglia la tipografia più piccola, effervescente e creativa al mondo. La frequentano grandi artisti, poeti e semplici appassionati del bello, tutti amici del gran proto, che qui è l’uomo che ha saputo far sopravvivere la stampa a mano facendone una semplice eppure sofisticata espressione editoriale, via via famosa in Italia e all’estero.
Piombo e arte
Lui è Alberto Casiraghy, e la sua impresa si chiama Pulcinoelefante: un marchio ormai storico, una sorprendente celebrità. Gli oltre 11.000 titoli fin qui stampati dal 1982 nella sua villetta di via Pinamonte 12 rappresentano una sorta di ossimoro artistico, perché sono, in uno, quanto di più spoglio si possa immaginare e quanto di più elaborato e visivamente felice si possa desiderare. Un foglio di carta pregiatissima, un aforisma o un verso stampati con la nitidezza che soltanto il piombo può lasciare, l’inserimento di un paio di motivi grafici, un tocco di colore secondo l’estro del proto e, infine, il tutto piegato in quattro e cucito a mano sul dorso con ago e filo. Ecco fatto un “libro” senza eguali: il Pulcinoelefante.

Wunderkammer
La porta della magica tipografia è sempre aperta: Casiraghy accoglie tutti, perché lui è un poeta, e i poeti non amano lucchetti e porte blindate. Semmai, il problema è districarsi in una miriade di oggetti: carte sparse, i più incredibili soprammobili, maschere africane, strumenti musicali, foglietti appesi qua e là. E occhi. Sì, grandi occhi stampati che occhieggiano, è il caso di dire, in ogni angolo: sulle coppe delle lampade, alle pareti, tra pentole e vasi. E volti familiari in foto seminascoste da mille ingombri: il sorriso di Alda Merini, i baffi di Sebastiano Vassalli, lo sguardo ridente di Giampiero Neri, e anche la bellezza di Grace Kelly o il gesto di Picasso in mutande che agita un lenzuolo.

La benedezione del prete
In una stanzetta appartata, anch’essa affollata, giganteggia “la macchina”, la stampatrice: una Superaudax della fonderia Nebiolo di Torino degli anni ’40. Casiraghy la comprò per un milione di lire nel 1994 da una tipografia della zona che chiudeva i battenti. Per farla entrare in casa, fece rompere il muro e la porta. Visto il disastro, sua madre Ida chiamò il prete per far benedire quel figlio un po’ pazzo. "Eh, signora: gli faccia fare il suo lavoro”, disse il sacerdote. E oggi, ricorda Casiraghy passando uno straccio sulla Nebiolo, “questa macchina, un dinosauro, per me è diventata una parente”. Ma il pur prodigioso “dinosauro” nulla potrebbe, se a “caricarlo” non ci fossero i sopravvissuti caratteri di piombo e i cliché custoditi dall’editore come reliquie in vetuste cassettiere.
La promozione di Indro Montanelli
Il mondo della stampa è enormemente cambiato da quando Casiraghy, nel 1972, era un imberbe impaginatore alla Same, la tipografia che a Milano, in piazza Cavour, stampava gli importanti quotidiani del Palazzo dell’Informazione. Una sera scese tra quei banchi Indro Montanelli, che nel vederlo lavorare, disse al proto: “Ma è bravo a comporre, questo ragazzino: facciamogli fare la prima pagina”. E Alberto passò di grado, lui che a 16-17 anni aveva già fatto il liutaio costruendo liuti e violini e aveva lavorato come scenografo pubblicitario allestendo biscotti finti per il Mulino Bianco. Ma era il piombo la sua vera passione, e quando anche la Same chiuse, un amico di Bruno Munari, lo stampatore Giorgio Lucini, gli regalò i caratteri e quanto gli sarebbe bastato per realizzare il suo grande sogno.

L’incontro con Alda Merini
Incontro fondamentale fu nel 1991 quello con Alda Merini, da poco uscita da una casa di cura. Lui le aveva portato un librino con i suoi versi, e lei, incuriosita, gli chiese di portargliene altri: uno-due alla settimana (frutto a volte di 70-80 telefonate al giorno), che la poetessa dei Navigli poi vendeva per comprare il pane e le medicine. Merini poi mostrò le operine a Vanni Scheiwiller, che ne fu molto colpito e in un articolo sul Sole 24 Ore scrisse che Casiraghy era "il panettiere degli editori, l’unico che stampi in giornata”. Alda Merini, ecco. Dice Casiraghy: “Mi parlava del portinaio, mi dettava le sue poesie, e che poesie! Me le dettava alle sei, sei e mezzo del mattino. Un frammento? La pistola che ho puntata alla tempia si chiama Poesia”.
Il film di Soldini e le mostre
Il resto è risaputo, parla di ammirazione e successo: il film Il fiume ha sempre ragione a lui dedicato nel 2016 da Silvio Soldini, le mostre a New York e nell’Indiana nel 2002, a Mosca ai tempi di Gorbaciov, a Berlino, oggi a Bellinzona, al Museo di Storia Naturale di Milano, alla Biblioteca Comunale di Brugherio.
Parterre de rois
Ma Casiraghy, abbiamo detto, rimane un poeta che vive da poeta e dà voce ai poeti, scrive e pubblica aforismi, e, un po’ pittore e un po’ designer, compone sorprendenti immagini surrealiste che già ingolosiscono più di un editore per le copertine dei loro libri. I nomi passati nella sua fantastica tipografia (atelier, bottega, studio, agorà...) sono tanti: oltre ai già citati, Enrico Baj, Franco Loi, Curzia Ferrari, Maurizio Cattelan, Roberto Bernasconi, Marco Beck, Emilio Tadini, Fernanda Pivano, Paolo Ravasi, bravissimo incisore e padre del cardinale Gianfranco, nato a due passi, a Merate, ma cresciuto a Osnago (“Un giorno, Umberto Eco mi disse di lui, Gianfranco: È l’uomo più colto che abbia mai conosciuto”) e lo stesso Andrea Tomasetig, che selezionò tutti i suoi titoli in vista del loro acquisto, nel 2020, da parte del Comune di Milano, che oggi li conserva alla Casa Boschi Di Stefano.
“Amo la gente”
Che cosa può mai dispiacere a quest’uomo, così felice dei suoi colori, dei suoi caratteri di piombo, della sua “macchina” e degli innumerevoli amici? Be’, un rammarico lo si coglie quando ricorda che una notte, uscita dal bosco lì vicino, una faina gli ha ucciso le sue quattro galline. Oggi gli fa compagnia un gattone di nome Igor, che sul tavolo in cucina sovraintende alla cucitura dei Pulcini. Ma poi, perché Casiraghy non ha fatto il liutaio, vista la gran bellezza dei suoi primi strumenti? “Mah, il liutaio deve passare tutta una vita da solo. Io, invece, amo la gente”. Ecco perché definisce i suoi undicimila titoli "un’esperienza antropologica".