
Luisa Franciosi con Il Giorno del 21 aprile 1956
Milano, 22 maggio 2018 - «Mio figlio mi prende in giro: dice che il Giorno è la mia droga...». Sorride Luisa Franciosi e a guardarla vien da pensare che il nostro quotidiano per questa signora sia più un farmaco miracoloso o un elisir di giovinezza. Mai si direbbe che abbia spento sei mesi fa 88 candeline. La vivacità intellettuale e fisica che comunica testimonia più di ogni parola quanto gli anni le abbiano regalato molta più saggezza che fatica o acciacchi.
Luisa, ci racconti qualcosa di lei...
«Sono una dei pochi milanesi doc rimasti, credo. Il mio bisnonno viveva già in città e la mia famiglia non se n’è mai allontanata. Sono la quarta di sei fratelli, la prima femmina e anche l’unica per otto anni, fin quando è nata mia sorella minore. Sono nata lo stesso giorno di Grace Kelly, il 12 novembre 1929. Avevo undici anni quando scoppiò la guerra, e non riuscimmo mai a sfollare, la famiglia era troppo numerosa. Di quel periodo ricordo la paura, soprattutto: le sirene dei bombardamenti, le corse in cantina. I partigiani uccisi dai fascisti proprio qui in viale Tibaldi. È qualcosa che ti segna per sempre, e ti permette di vedere la vita in prospettiva. Quando sento le persone lamentarsi di tutto, mi viene da rispondere: abbiamo la pace, che da sola è una ricchezza inestimabile».
La guerra ha colpito la sua famiglia nel profondo.
«Sì, il mio fratello più grande, Giordano, era in Marina. Dopo l’armistizio fu deportato insieme a tanti commilitoni in un campo di prigionia in Germania e vi morì. Mio padre era in sanatorio in quei giorni e per tre mesi non avemmo il coraggio di dirlo a mia madre. Sono passati tanti anni, ma a parlarne mi viene ancora da piangere».
Non sarà stato facile vivere per una famiglia numerosa nel dopoguerra.
«Infatti. Avrei voluto continuare gli studi, ma a 14 anni dovetti “andare a bottega”. Lavoravo in una sartoria in via Sant’Andrea: quando non cucivo sfilavo per presentare i modelli alle clienti. Il mestiere di sarta mi ha accompagnato fino alla pensione. Ho anche gestito un negozio».
Quando conobbe suo marito?
«Avevo quindici anni, lui trenta. Era tornato dal fronte e aveva scoperto di non avere più nulla: la moglie si era messa con un gerarca fascista, l’inflazione aveva mangiato tutti i risparmi della sua famiglia. Ci innamorammo e quando avevo vent’anni nacque mio figlio, ma dovemmo combattere per farlo ricononoscere: il divorzio non era ancora legale. La battaglia referendaria mi ha coinvolto personalmente, e l’ho condivisa con il mio quotidiano».
Quando ha iniziato a leggere Il Giorno?
«Il 21 aprile del 1956, la data di nascita del quotidiano di Mattei. E non ho più smesso».
Un colpo di fulmine...
«Proprio così. Me ne sono innamorata subito. Per la grafica così innovativa, per la capacità di parlare a tutti, anche di politica ed economia. Per il pluralismo. Per le splendide firme: Mario Soldati, Giovanni Fusco, Giorgio Bocca, Morando Morandini, solo per citarne alcuni. Enrico Mattei era un uomo straordinario, e Il Giorno era la sua degna creatura».
Sono passati più di 60 anni, ma la sua fedeltà non è venuta meno.
«Non so stare senza il mio giornale, è ciò che mi permette di restare dentro la vita della mia comunità. Lo leggo tutto, compreso lo sport, e faccio sempre le parole crociate. Quando vado in vacanza soffro a non poter leggere la cronaca di Milano».
Che cosa apprezza del Giorno oggi?
«È facile da leggere, e questo è un grande pregio. Maneggevole, vivace, immediatamente comprensibile. Anche il supplemento economico. Mi apre il cuore vedere gli annunci di ricerca del personale: allora è vero che l’Italia ha un futuro. Tra tutte preferisco proprio le storie positive, sui giovani che sanno costruirsi un avvenire partendo da un’idea. Una lettura che consiglio anche agli studenti della Bocconi che abitano nel mio palazzo, e che mi danno sempre la delega per le assemblee condominiali: una fiducia che mi commuove».
Si è mai abbonata?
«No, preferisco andare in edicola: è un motivo per uscire di casa al mattino e fare due chiacchiere con il giornalaio. Purtroppo però ora l’edicola che avevo vicino a casa è chiusa, e mi tocca andare a piedi fino a via Meda per comprarlo o certe volte devo arrivare in tram a piazza Duomo».