"Va data voce alle emozioni, anche a quelle più disturbanti, che invece si mettono a tacere". Matteo
Lancini è psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano.
La strage di Paderno interroga tutti: c’erano segnali premonitori?
"Li si cerca sempre post mortem. E sicuramente si troveranno frasi nelle chat, messaggi su Telegram. Tutti in queste ore stanno pensando che potrebbe capitare anche a noi, perché non c’erano apparentemente avvisaglie anche se, fortunatamente, stragi così gravi capitano raramente. Ma il punto è un altro".
Quale?
"Piuttosto che puntare sull’intercettazione di “segnali premonitori“ bisogna fare sentire ai ragazzi la possibilità di mettere in parola, simbolo, condivisione, anche la rabbia e la tristezza, legittimando i pensieri e quello che sperimentano. La relazione è l’unica possibilità. Dobbiamo interrogarci su come aiutare i nostri figli, che hanno caratteristiche uniche, a mettere in voce le loro emozioni, non solo quelle positive. Ma quelle che governano la mente, dolore, ansia".
Serve un’educazione all’affettività?
"Sì, ma non deve essere una cosa che gli adulti ’insegnano’ ai giovani. Anche perché manca un’alfabetizzazione emotiva degli adulti, prima ancora che dei ragazzi. Siamo tutti d’accordo che, come genitori, ascoltiamo i nostri figli molto di più di quanto fossimo ascoltati noi. Eppure c’è un’enorme difficoltà, che non riguarda solo gli adolescenti. Una fragilità diffusa. Dobbiamo imparare ad ascoltare i ragazzi anche quando dicono cose non vorremmo sentire, che non tolleriamo. Non significa dare loro ragione, ma dare legittimità a parole e pensieri, qualunque siano".
Manca ancora un movente, ma dalle prime parole del ragazzo è emerso che "si sentiva un corpo estraneo".
"Una frase centrale anche nel mio monologo, che ho citato poche ore prima della tragedia di Paderno e che ho sentito riecheggiare così. È il sentirsi soli, anche in mezzo agli altri. È questo il punto. E dobbiamo smettere di pensare che sia tutta colpa degli smartphone, dei social, di un mondo che abbiamo creato noi. Troppo facile".
Potrebbe avere influito in questo caso anche l’ansia da prestazione, il non ammettere l’errore, quell’unico debito?
"Non credo. Anche se la nostra è una società performante. Che non ammette il conflitto, bollandolo sempre come bullismo. Che non ammette la frustrazione".
E neppure il lutto.
"È vero, non c’è più. Siamo una società algofobica. Anche i funerali si chiudono con un applauso, un lancio di palloncini al cielo. E via. Non si portano i bambini. La morte è spettacolarizzata, ma rimossa dal quotidiano. Bisogna riappropriarsi anche del linguaggio del lutto e trasformare questa terribile vicenda in un’occasione per ragionare".