Milano – Nicola Rao, giornalista Rai, autore del libro ‘Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza’ (Piemme, 18,90 euro), partiamo dal titolo del suo saggio: l’immagine in copertina è chiara, ma come spiegare a un giovane di quali chiavi stiamo parlando e l’uso improprio che se ne faceva negli anni Settanta?
“Il titolo si riferisce a una pratica violenta che si sviluppò a Milano tra il 1972 e il 1976, l’uso della chiave inglese, una pratica fondata sull’intolleranza che ha riguardato soprattutto giovani e giovanissimi, una storia a tratti dimenticata. Si parla molto, giustamente, delle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese o degli omicidi politici più importanti, ad esempio il caso Moro, ma in pochi, soprattutto tra i giovani contemporanei, conoscono storie di violenza e di sangue come quella che costò la vita a Sergio Ramelli, colpito proprio con le chiavi inglesi. L’obiettivo del mio libro è prendere per mano un giovane di oggi, portarlo nei luoghi della città e fargli conoscere quei fatti. Come in una macchina del tempo”.
Nel dicembre 1970 l’allora prefetto di Milano Libero Mazza denunciò con un rapporto inviato al ministero dell’Interno che in città c’erano 20mila giovani, di estrema sinistra e di estrema destra, più numerosi i primi dei secondi, che avevano come obiettivo di sovvertire le istituzioni democratiche. Eppure la violenza continuò per anni.
“È così. Se molti di quei giovani fossero stati fermati per tempo, alcuni di loro non avrebbero fatto il salto nella lotta armata qualche anno dopo. Lo dice anche il giudice Guido Salvini nella postfazione del mio libro”.
Nel saggio ci sono molte testimonianze dirette, da destra a sinistra. Da quali partire?
“Le testimonianze di più alto valore politico sono quelle di Ignazio La Russa, allora militante del Msi, oggi presidente del Senato, e di Valeria Fedeli, allora sindacalista della Cgil, ora esponente del Pd ed ex ministro. Entrambi fanno autocritica, ma quello che mi ha colpito molto è che i loro ricordi di quegli anni sono ancora nitidi, a dimostrazione del fatto che quanto vissuto 50 anni fa gli è rimasto dentro. Mi hanno raccontato di come la pensavano allora, da idealisti in buona fede”.
Veniamo a Ramelli. Cosa l’ha colpita di più di quel delitto?
“È una storia unica. Ramelli, studente 18enne dell’Istituto Molinari, scrisse un tema a scuola e quel testo venne attaccato in bacheca con la scritta “questo è il tema di un fascista“. Da lì iniziò la persecuzione ai danni del ragazzo, che visse un inferno, una via crucis. Fino all’aggressione sotto casa da parte di militanti di Avanguardia operaia e alla morte. È una storia che sintetizza il livello di degenerazione e di impazzimento a cui arrivò l’estremismo in quegli anni”.
In Consiglio comunale qualcuno applaudì quando l’allora capogruppo del Msi Staiti di Cuddia comunicò all’aula l’aggressione ai danni di Ramelli.
“Nel libro ho riportato i verbali di quella seduta. C’erano molte leggende metropolitane, soprattutto a destra, su quanto accadde quel giorno a Palazzo Marino. Non è vero che alcuni consiglieri comunali di sinistra applaudirono alla notizia dell’aggressione di Ramelli. Ma dalla tribuna del pubblico, pieno di dipendenti dell’Atm, partirono urla di approvazione. Il sindaco Aldo Aniasi provò più volte a interrompere quella gazzarra”.
Il giudice Salvini riuscirà a individuare e far arrestare gli aggressori di Ramelli, quasi tutti studenti di Medicina all’epoca del delitto.
“Infatti, quando dieci anni dopo furono arrestati, erano quasi tutti medici. E la sentenza che li condanna per omicidio volontario si basa proprio sul fatto che quei ragazzi, studenti di medicina, non potevano non sapere che quelle grosse chiavi inglesi, se utilizzate per colpire una persona alla testa, ne potevano provocare la morte. Ma c’è un altro aspetto grave sottolineato da Salvini nella postfazione”.
Quale?
“Moltissimi a Milano sapevano chi fossero i responsabili dell’omicidio Ramelli, ma non li denunciarono. Li coprirono”.
Se dovesse indirizzare un messaggio a un giovane che legge questo libro, quale sarebbe? Cosa insegnano quelle violenze degli anni Settanta?
“L’obiettivo di questo libro è la denuncia dell’intolleranza. Un sentimento che può portare ad aberrazioni come quelle di quegli anni. Oggi non si usano più le chiavi inglesi, per fortuna, ma esistono gli haters, le shit storm e le demonizzazioni degli avversari. Le parole possono fare male come pietre. L’intolleranza, quindi, è il nemico da abbattere, ancora oggi”.
Ultima domanda: il fatto di concentrare il libro sulla storia di Ramelli non rischia di “sbilanciarlo“ a destra?
“Non credo proprio. Io racconto quella storia, ma non escludo le altre di segno opposto, anzi. Nel libro parlo della violenza nera, riporto una frase di Almirante che nel 1970 in tv teorizza il colpo di Stato. Non ho nascosto nulla. Ma l’anno prossimo saranno 50 anni dall’omicidio Ramelli e mi sembrava giusto raccontare quella storia tragica a chi non c’era o a chi se l’è dimenticata”.