Milano – “Habibi, habibi”. Il mio amore, in arabo. Le labbra di Farida pronunciano questa parola come una preghiera. Gli occhi sempre pronti a versare nuove lacrime, che scendono non appena qualcuno si avvicina a porgerle le condoglianze abbracciandola. L’amore a cui Farida si rivolge è il suo figlio più piccolo, Ramy Elgaml, il diciannovenne morto all’alba di domenica scorsa al termine del lungo inseguimento, durato 20 minuti, del TMax guidato da un amico del giovane, un ventiduenne tunisino, da parte di una pattuglia del Radiomobile dei carabinieri. A casa della famiglia – originaria del Cairo, a Milano da 11 anni –, al primo piano di un alloggio popolare in via Mompiani al quartiere Corvetto, la porta rossa d’ingresso non è chiusa a chiave. L’uscio si spalanca di continuo per accogliere la processione silenziosa di parenti e amici che bussano per portare conforto. Nel soggiorno, Farida è sul divano circondata da altre donne, vicine di casa che non la lasciano sola, abbandonata al suo dolore. Di fronte, la televisione trasmette una preghiera. E lei non fa altro che ripetere la sua: “Habibi, habibi. È il mio Ramy. Nella mia mente vedo l’incidente che me lo ha portato via per sempre”. Lo dice in arabo ma subito tra le altre donne c’è chi traduce.
A cosa sta pensando, in particolare?
“Sto pensando a quello che Ramy deve aver fatto durante quell’inseguimento. È come se lo vedessi davanti a me, mentre dice all’amico di rallentare, muovendo gambe e braccia. Io sono sicura che glielo abbia detto perché Ramy non era spericolato. Sicuramente aveva tanta paura in quel momento”.
La casa è piccola. Il resto della famiglia, il padre Yehia Elgaml, il fratello maggiore di Ramy 24enne (in Egitto ne vivono altri due, più grandi: un fratello e una sorella), uno zio e due amici, sono nella camera con il letto matrimoniale. Il padre non entra nel merito dell’incidente ma vuole dire qualcosa.
Che messaggio vuole lanciare?
“Io chiedo la verità. Voglio sapere come mio figlio è morto, in tempi brevi. Capisco come si è sentita la famiglia di Giulio Regeni (il ricercatore italiano ucciso al Cairo nel 2016, ndr): sono passati 8 anni senza verità. Per noi potrà essere diverso?”.
Quando ha visto per l’ultima volta suo figlio?
“Sabato sera, prima che uscisse. La sera precedente, venerdì, aveva fatto molto tardi rientrando a casa all’alba. ‘Sono stato al compleanno di un amico’, mi aveva detto. Sabato mi ero quindi raccomandato che non tornasse tardi. Lui me lo aveva assicurato. Ma lo sto ancora aspettando... Mio figlio non è più tornato”.
Di cosa si occupa a Milano?
“Noi siamo una famiglia di lavoratori. Io svolgo servizi di pulizie. Mio figlio maggiore invece lavora nel settore sicurezza mentre mia moglie si occupa della casa. Ramy era elettricista, aveva perso il lavoro più o meno un mese fa ma voleva ricominciare a lavorare”.
La morte di Ramy ha innescato disordini nel quartiere, con atti vandalici, incendi, l’assalto a un filobus... Che cosa pensa di questa reazione?
A rispondere è lo zio. “Noi siamo chiusi nel nostro dolore. Non stiamo uscendo di casa. Gli amici di Ramy hanno tanta rabbia ma anche altri ragazzi, che si sono uniti. Perché non sono d’accordo con quello che è emerso, vorrebbero visionare i filmati delle telecamere”.
Il fratello di Ramy annuisce. “Per mio fratello chiedo verità e giustizia”, sottolineava ieri su queste pagine. Adesso apre l’armadio e tasta i vestiti del fratello. Soprattutto una maglietta bianca.
La maglietta bianca era di Ramy?
“Sì. La indossava sabato, prima di uscire. Siccome è molto leggera e a maniche corte, gli avevo consigliato di metterne una più pesante. Così lui l’ha tolta e ne ha messa un’altra. Adesso questa maglietta bianca è preziosa perché è l’indumento che mio fratello indossava prima di morire, prima di uscire di casa, quando tutto ancora doveva succedere. Sopra c’è una felpa nera, nuova, ancora con il cartellino, che mi aveva chiesto di sistemargli vicino alla maglietta, per l’indomani. Ma Ramy non ha più potuto indossare nulla”.
Che cosa sognava di diventare?
“Giocava molto bene a pallone, anche se non si allenava con una squadra. Avrebbe voluto fare il calciatore”.