Milano – Negli anni è diventato un punto di riferimento per la numerosissima comunità egiziana di stanza a Milano e in Lombardia, anche per la sua estrema disponibilità a occuparsi degli altri. Aly Harhash, 65 anni, titolare di una ditta di manutenzioni e piccoli lavori di ristrutturazione, moglie italiana e due figli, è il presidente della comunità di connazionali che vivono all’ombra della Madonnina e nel resto della regione: è stato accanto fin dall’inizio alla famiglia di Ramy Elgaml, il 19enne morto nello schianto di un TMax in via Ripamonti durante un inseguimento con una pattuglia dei carabinieri finito in maniera drammatica. Il suo nome non è affatto nuovo alle cronache: la mattina del 12 settembre 2020, fu il primo a entrare in un condominio di piazzale Libia dopo una fortissima esplosione al piano terra per soccorrere il ventinovenne ucraino Adrian Serdiuchenko e tirarlo fuori dall’abitazione ormai invasa da fumo e macerie. “Non chiamatemi eroe – si schermì in quell’occasione in un’intervista al Giorno – Mi sono trovato lì e ho fatto quello che dovevo”. Frasi che possono valere anche oggi, in un contesto se possibile più complicato di quello in cui si era ritrovato quattro anni fa.
Harhash, è in contatto con la famiglia del diciannovenne Ramy Elgaml?
“Sì, ci siamo sentiti sin dal primo giorno: cerco di stare accanto al papà, alla mamma e al fratello, come faccio abitualmente con i tutti i membri della nostra comunità, con particolare attenzione a coloro che si trovano a vivere situazioni così dolorose”.
Era al Policlinico anche la notte in cui Ramy è stato portato in pronto soccorso in condizioni disperate dopo lo schianto in via Ripamonti.
“Sono andato subito in ospedale: c’erano lì tanti amici, ho cercato di tranquillizzare la situazione per evitare che la tensione salisse”.
La tensione è salita invece nei giorni successivi, quando diverse decine di giovani hanno messo a ferro e fuoco il quartiere Corvetto, quello in cui il diciannovenne abitava con i genitori e con uno dei tre fratelli. Come ha vissuto quei momenti?
“Come ha detto anche il papà di Ramy, mi dissocio completamente da quelle violenze: è doveroso chiedere la verità per capire come siano andate effettivamente le cose, ma i vandalismi e la guerriglia contro le forze dell’ordine non sono assolutamente giustificabili. Detto questo, bisogna aggiungere una cosa”.
Quale?
“Le istituzioni non possono abbandonare questi ragazzi al loro destino: si tratta, per la stragrande maggioranza, di giovani e giovanissimi che sono nati in Italia o ci sono arrivati da bambini. Ramy era uno di loro: aveva 8 anni quando è venuto a Milano insieme ai genitori. Sono cresciuti qui, sono italiani a tutti gli effetti. E non vanno abbandonati, ma seguiti e integrati. Abbiamo il dovere di occuparci di loro, di accompagnarli nella loro crescita con progetti che li coinvolgano e non li facciano sentire stranieri nel Paese che li ha accolti. Altrimenti si rischia che le periferie più problematiche si trasformino in veri e propri ghetti e che i ragazzi sfoghino la loro rabbia con la violenza, come sta accadendo al Corvetto”.
Cosa si sente di dire ai ragazzi che hanno preso parte a quell’assalto, e in particolare ai suoi concittadini egiziani?
“Mi sento di dire loro che con la violenza non si risolve nulla: la richiesta di verità e giustizia per Ramy è legittima, ci mancherebbe, ma non può e non deve essere questo il modo per avanzare questa istanza”.