REDAZIONE MILANO

La Signora dell’Ultima Cena «Io e Leonardo ci diamo del tu»

Pinin Brambilla racconta i suoi quarant’anni col capolavoro restaurato di Gian Marco Walch

Pinin Brambilla Barcilon davanti al Cenacolo

Milano, 18 marzo 2015 - «Leonardo per me? Dopo così tanti anni, è uno di famiglia. Ormai ci diamo del tu»: già, perché reca la data dell’ormai lontano 1977 il primo incontro fra Leonardo da Vinci e Pinin Brambilla Barcilon. In quell’anno all’allora giovane ma già ricca di esperienze restauratrice, al lavoro sulla grande “Crocifissione” di Giovanni Donato da Montorfano, nel Refettorio di Santa Maria delle Grazie, fu proposto di cambiare parete. Di affrontare, cioè, il restauro della gigantesca opera che fronteggia quella “Crocifissione”: l’“Ultima Cena”. Dopo una ricognizione del capolavoro da vicino, «un impatto visivo completamente negativo, un ammasso di grumi, una materia pittorica pasticciata», ricevuti i primissimi finanziamenti, si apriva quel famoso cantiere di lavoro che avrebbe impegnato Brambilla Barcilon per una ventina d’anni. Un’avventura che la sua protagonista ha ora brillantemente rievocato in “La mia vita con Leonardo”, agile ma ricco volume, fra ricordi intimi e approfondimenti tecnici, appena edito da Electa.

Pinin Brambilla Barcilon, il “suo” Leonardo lei torna a vederlo? E come lo trova? «In buono stato. Certo, quel dipinto va continuamente monitorato, tenuto sotto controllo: il pericolo maggiore per lui è dato dalle particelle di polvere, particolarmente rischiose su una superficie così scabra».

Negli anni del restauro, subito rimbalzato sui giornali di tutto il mondo, le polemiche non mancarono. I suoi nemici più agguerriti? I burocrati? I politici? Gli accademici? «I burocrati sono sempre uguali, in qualunque settore d’attività. Politici, accademici… In realtà direi i giornalisti: c’è sempre qualcuno che vuole piazzare uno scoop. Ma basta non raccogliere».

E i suoi amici? Carlo Bertelli? «Un soprintendente intelligente e sensibile. Con lui ho sempre avuto un buon rapporto, discutevamo insieme il lavoro, anzi mi ha spesso aiutato, mi faceva da barriera difensiva».

Renzo Zorzi? «Ah, Zorzi era eccezionale. Uomo di cultura, assunse la regia dell’intera operazione. Garantendo il sostegno economico dell’Olivetti, ma anche finanziando il restauro della copia del Giampietrino, organizzando mostre, pubblicazioni, visite all’estero».

Lei lavorava con il Refettorio aperto al pubblico. «Sì, e l’esperienza era drammatica. Le scolaresche che correvano e facevano chiasso. I visitatori che, senza riguardi, mi dicevano: “Si sposti un po’, che non vedo!” Sembrava che io volessi essere la padrona esclusiva dell’Ultima Cena… Arrivò anche Enzo Tortora con una sua troupe».

Come ci si prepara a restaurare un’opera come l’Ultima Cena? «Ogni lavoro di restauro è un colloquio intimo con il pittore, la gioia nasce dal riuscire a stabilire con lui un contatto, a capirlo. Altrimenti sono danni».

Lei si è dedicata non solo al Fiammenghino in San Marco, a Sant’Eustorgio, a San Celso, Mirasole, Viboldone, ma anche ad artisti modernissimi. «Il primo fu Carrà, un dipinto del periodo metafisico. Poi Fontana, Man Ray… Lì occorre studiare bene i materiali, le tecniche di composizione, così eterogenee».

Un restauratore è anche un chimico-fisico? «Si avvale di loro. Oggi siamo favoriti dalla tecniche più avanzate, non invasive, che permettono di studiare un’opera senza toccarla».

Del Cenacolo che ammiriamo oggi, quanto vi è del Leonardo originale? E quanto di Pinin? «Di Leonardo, molto. Molte zone sono state lasciate come apparivano, senza muovere niente al di sotto dello strato superficiale. Quanto a me, mi sono limitata a un lavoro più che discreto di velature, per consentire una continuità di lettura dell’opera».

Ma lei ha portato alla luce particolari da chissà quanto tempo invisibili. «Sì, i piatti di peltro, il riverbero della luce da sinistra, la trasparenza dei bicchieri. Il riflesso sui loro bordi dei colori degli abiti. Una pittura fiamminga, l’Ultima Cena…»

-Anche gli apostoli si sono rivelati diversi. Come lei racconta dettagliatamente in un suggestivo capitolo de “La mia vita con Leonardo”. «È vero. Matteo, per esempio. Le scoperte più emozionanti. Scomparsa la barba, finta, dovuta all’errata interpretazione dell’ombra portata dal mento. Ritrovato il profilo classico del naso. Più vivo lo sguardo. Vibranti i riccioli. Un Matteo tornato giovane come era».

Pinin Brambilla Barcilon, lei naturalmente lavora ancora. «Sì, in piazza Borromeo, sulla Casa omonima. Un intervento difficilissimo. Oltretutto il mondo del restauro è molto cambiato. In peggio. Oggi c’è chi restaura pagato un tanto al metro…»