
Il filosofo Leonardo Caffo è stato condannato in primo grado a una pena di 4 anni
Milano, 28 aprile 2025 – La difesa del filosofo Leonardo Caffo fa appello contro la condanna per maltrattamenti e lesioni aggravate nei confronti dell’ex compagna. Lo scrittore è stato condannato in primo grado a una pena di 4 anni dal tribunale di Milano, con sentenza pronunciata lo scorso 10 dicembre.
Nel ricorso l’avvocato Fabio Schembri – anche fra i legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all'ergastolo con l’accusa di aver commesso la strage di Erba – prova a smontare il dispositivo dei giudici, parlando di un giudizio di colpevolezza che sarebbe stato disposto “in assenza di elementi di prova”, alla base di una sentenza che si concentrerebbe su schemi e categorie “prive di rilevanza penale”.
L’istanza
L’avvocato, nel testo del ricorso, circa 80 pagine, sostiene che il sentimento del filosofo fosse “certamente malato”, ma che Caffo “non è un manipolatore" e "non fece nulla per incutere timore" alla presunta vittima". "Non impose un regime di vita vessatorio" e "non tradì"; non cercò di convincere nessuno che "la sua ex compagna soffrisse di un qualsivoglia disturbo psichico" e "non coartò in alcun modo la libertà di autodeterminazione della persona offesa". Queste le tesi sostenute da Schembri.
L’avvocato contesta anche “l'indimostrato schema patriarcale che connoterebbe il modo di essere dell'imputato”, mentre per la persona offesa sarebbe “stata congetturata una fragilità psichica e una sorta di debolezza di genere".
Una valutazione che ha permesso al collegio giudicante di "creare in modo artificioso una insussistente e del tutto indimostrata soggezione della persona offesa", nonostante –secondo la tesi difensiva – "dall'istruttoria dibattimentale fosse emerso un rapporto tra i due di spiccata conflittualità, ma pur sempre in una posizione di reciproca parità".
I ruoli
Il processo "ha permesso di ricostruire che le parti si confrontavano frequentemente, spesso con veemenza, ma sempre su un piano paritetico", e, soprattutto, "senza che mai la signora dimostrasse timore nei confronti dell'imputato. La sentenza impugnata, invece, pur ammettendo la conflittualità delle parti e il fatto che in più occasioni la persona offesa avesse assunto comportamenti violenti (sia fisici che verbali) nei confronti del Caffo, ha ritenuto di doverli qualificare quale mera reazione, nonostante gli elementi di prova fossero dimostrativi di tutt'altro".
I giudici di primo grado "avrebbero dovuto soffermarsi su gli elementi a discarico, anziché ignorarli concentrandosi su mere congetture a sfondo psicologico o di genere. La sentenza dunque - aggiunge il legale - pecca di inconsistenza sia perché priva di contenuti, sia per la ricostruzione in fatto, sia per i non pochi errori in diritto". La palla, a questo punto, passa alle parti che si confronteranno nel processo di secondo grado.