Milano, 12 ottobre 2019 - L'idea era quella di fermarsi nel pieno dell’orario di cena, per protestare contro le precarie condizioni di lavoro. E invece pochi aderenti allo sciopero nazionale proclamato dai collettivi dei fattorini, tanta incertezza e una costante: la stanchezza di quei ragazzi che vorrebbero far sentire la propria voce ma non hanno la forza di organizzarsi. Uno spaesamento spiegato dagli occhi azzurri di Aziz, 25 anni, che ha lasciato l’Afghanistan per sperare in una vita migliore. Prima a Udine e poi a Milano perché, dice in un italiano stentato, «qui mi hanno consigliato dei corsi da frequentare per imparare la vostra lingua». Nel frattempo, di sera consegna cibo a domicilio per Glovo. Senza casco, senza protezioni, con il Gps del telefono come unico mezzo per orientarsi nel traffico dei viali. Uno scaldacollo lo protegge dai primi freddi della sera milanese.
Poco più avanti c’è Adil, pakistano di 32 anni che lavora per Deliveroo e che è soddisfatto del suo mestiere. «Mi hanno fornito il casco e lo zaino – dice con una punta d’orgoglio – se mi succede qualcosa chiamo un numero di assistenza e dopo pochi minuti qualcuno mi raggiunge per aiutarmi». Basta poco, però, perché la sua voce s’incupisca. Si dice consapevole dei rischi che molti suoi colleghi corrono quotidianamente lungo le strade, senza tutele e in balìa di una sfrenata corsa alla consegna. Sì, perché più consegne fai e più punti accumuli, in una “lotta tra poveri” che spesso favorisce chi rischia di più, mettendo in pericolo la sua vita e quella degli altri. La pensa così Fahad, anche lui pakistano, che da un paio di mesi consegna cibo a domicilio per Uber Eats a Milano, dopo aver già lavorato per Deliveroo a Treviso. «Prima guadagnavo molto di più, ma da un momento all’altro non mi hanno più chiamato – spiega con l’aria di chi non ha mai avuto risposta alle tante email inviate –. Ho pagato 70 euro per avere lo zaino e un impermeabile, che però non è mai arrivato». E allora qualche valido motivo per scioperare ci deve pur essere. Gli occhi spenti di Tourè, 19enne del Gambia, sembrano avere la risposta. «Mi fermerò per tre ore, dalle 20 alle 23, perché ci sono tante cose che non vanno», si sfoga in un misto di italiano e inglese. Intorno a lui ci sono i punti ristoro che sfornano continuamente pacchi da consegnare, tanto che molti ragazzi si fermano, cambiano indirizzo sul navigatore e ripartono, con le cuffie nelle orecchie per andare con la mente il più lontano possibile da quel continuo accumulo di punti, chilometri e frustrazione. «Ora devo andare – dice affaticato Tourè – tra qualche minuto però torno qui e se vuoi ne parliamo». Vorrebbe sfogarsi, ma non può. C’è una consegna da portare a termine, e in fretta. Altrimenti pochi punti, niente lavoro e nessun futuro.