Milano, 30 giugno 2018 - Non c'è giorno che non arrivi una segnalazione di un «nuovo insediamento», che sia una tenda sparuta in una strada senza uscita, un agglomerato di baracche a ridosso di una roggia tra la città e l’hinterland, una carovana su una pista ciclabile o tra i palazzi. Difficile la convivenza tra milanesi e rom. Ancor di più se al centro non ci sono accampamenti temporanei ma campi regolari di vecchia data. Il tema è caldo. L’obiettivo finale del Comune, come ha annunciato il sindaco Giuseppe Sala il mese scorso, è chiudere tutti i campi nomadi. Che ne pensano gli addetti ai lavori?
Donatella De Vito, sociologa, responsabile dell’area emergenza sociale della Casa della carità, non ha dubbi: «Il sistema vincente è dare ai rom la possibilità di affrontare percorsi di autonomia. Prima di tutto, sottolineo che non si può fare un discorso generalizzato: i rom non sono tutti uguali, così come non sono uguali le loro condizioni di vita. La metà sono italiani, altri sono romeni, e quindi comunitari, altri ancora sono arrivati dalla ex Jugoslavia a seguito della guerra negli anni ’90. Fino agli anni Settanta giravano per le città, si guadagnavano da vivere col commercio di cavalli, lavorando il ferro, facendo i giostrai. A poco a poco, con la crisi dei lavori artigianali, hanno cominciato a diventare stanziali. Mentre nel sud Italia sono state sviluppate politiche di inserimento abitativo, al nord e nel centro sono state create delle aree di sosta che sarebbero dovute essere temporanee ma che si sono trasformate di fatto nei campi rom. Separati dal resto della città, lontani dai servizi, da tutto. E questo non solo non ha favorito l’integrazione, ma l’ha resa difficilissima». Oggi sono mille i rom presenti in città, 954 per l’esattezza, nei cinque campi regolari (via Bonfadini 39, via Impastato 7, via Chiesa Rossa 351, via Martirano 71, via Negrotto 23) e in quattro insediamenti abusivi (via Monte Bisbino, via Vaiano Valle 41, via Bonfadini 38, via Cusago 275). E non mancano accampamenti mordi e fuggi, segnalati dagli abitanti in diverse zone.
Vent'anni fa, i nomadi in città erano 1.400, si legge nel “regolamento relativo agli insediamenti” deliberato in Consiglio comunale nel 1998. «Già dal 1986 l’Amministrazione ha affrontato la problematica abitativa predisponendo aree attrezzate per la sosta». Allora, queste aree erano quattro, nelle vie Martirano, Idro, Negrotto e Bonfadini. Ora la situazione è ribaltata: si punta alla chiusura. L’ultimo campo a essere stato smantellato è stato quello di via Idro, a marzo del 2016. A fine luglio del 2014 era toccato a quello di via Novara, mentre a maggio del 2011 aveva chiuso i battenti quello di via Triboniano. Uno sguardo pure al numero del rom sgomberati: 1.025 dal 2012 ad oggi. Che succede dopo gli sgomberi? Qualcuno accetta un’accoglienza alternativa, altri si spostano. «Ma non si va lontano, se non si supportano progetti che puntano all’autonomia economica e abitativa», ribadisce De Vito.
Nel 2005, la Casa della carità ha lanciato il progetto pilota “Villaggio solidale” insieme al Centro ambrosiano di solidarietà. «In 13 anni – spiegano i promotori – sono state accolte 84 famiglie rom. Il 79 per cento oggi vive in appartamento, per lo più in affitto (52 per cento), ma qualcuna ha anche acquistato casa (8 per cento). Altre ancora sono andate a vivere in appartamenti acquistati o affittati nel loro paese d’origine, la Romania (11 per cento), o in altri stati europei (3 per cento). Solo 6 famiglie sono ritornate a vivere in un campo». Tra i capisaldi: l’impegno per l’istruzione dei minori e per l’emancipazione della donna. Il punto di partenza è la ricerca di un lavoro stabile, «abbiamo sviluppato percorsi di orientamento e formazione professionale, in collaborazione con altre realtà del terzo settore e con le istituzioni, e sono stati attivati tirocini, borse lavoro e percorsi di apprendistato». Il primo passo verso il futuro.