Milano – Il ricordo torna agli anni della pandemia, quando il personale delle residenze sanitarie assistenziali per anziani si è trovato in prima linea nell’emergenza sanitaria, a far fronte al dilagare dei contagi. Quello che resta, ora, sono problemi irrisolti: salari bassi, elevato “stress fisico e mentale”, contratti precari e “insufficienti iniziative di formazione e valorizzazione del capitale umano”. Fattori, evidenziati da un’indagine dello Spi e della Fp Cgil, che “inducono i professionisti della salute a considerare un impiego nelle Rsa come una soluzione di ripiego”, con un conseguente elevato turnover e fuga di personale innescata anche dagli stipendi più alti offerti nelle strutture della vicina svizzera.
La ricerca è stata effettuata distribuendo un questionario nelle Rsa sul territorio. Hanno risposto 146 strutture, pubbliche e private, con una media di 86 posti letto, che impiegano in tutto 13.403 addetti, di cui 11.276 nell’assistenza sanitaria e personale. Il 34,2% ha contratti part time. Una media di 0,29 persone dedicate all’assistenza sanitaria per ogni posto letto disponibile, che varia del valore minimo dei medici (0,06 per posto letto) a quello più elevato degli Oss, gli operatori socio sanitari (0,44 per posto letto).
“Le Rsa pubbliche mostrano un rapporto tra personale sanitario e posti letto più alto, pari 0,42, mentre per le strutture private tale quoziente è 0,27”, si legge nel rapporto presentato ieri a Milano. E questo è un primo distinguo, perché i “cambiamenti avvenuti nel contesto competitivo”, tra cui la forte crescita del privato, “non hanno certamente portato vantaggi, in termini contrattuali e di salario, al personale che opera nelle Rsa”. Anche relativamente agli infermieri, seppure in presenza di percentuali più basse, si rileva una quota consistente di contratti non a tempo indeterminato, pari al 42,8%. Il 4,2% del personale opera con contratto a tempo determinato, il 32,6% in libera professione, il 6% con altre forme contrattuali. Gli infermieri in part time sono il 36,9% del totale, un valore che si eleva al 61,8% relativamente alla libera professione. Lavorano part time due su dieci degli infermieri con contratto a tempo indeterminato.
Numeri che fanno suonare un campanello d’allarme, viste anche le previsioni Istat sull’invecchiamento della popolazione: la Lombardia del 2033, infatti, ospiterà circa 900 residenti con più di 80 anni, con la conseguente crescita delle necessità di assistenza. “Un sistema, quello delle Rsa, che seppur dominante in Lombardia appare quasi completamente svincolato dai servizi territoriali e governato da logiche privatistiche – denuncia la Cgil – che consentono alle strutture di scegliersi i pazienti garantendosi così grandi margini di guadagno. Un margine che non viene però condiviso con il personale dipendente”. Federica Trapletti, segretaria dello Spi Cgil Lombardia, tra le altre proposte chiede alla Regione “vincoli all’aumento delle rette”, che in alcuni casi arrivano a superare i duemila euro al mese, e l’apertura di un tavolo di confronto. “La popolazione del personale, composta soprattutto da lavoratrici over 50 – aggiunge Sabrina Negri, delle segreteria Fp Cgil Lombardia – è usurata dall’attività quotidiana”.
Nei giorni scorsi, sul tema del contratto, era intervenuta anche Uneba, la principale associazione dei gestori di Rsa. “Uneba ha ritenuto, pur in un momento di obbiettiva difficoltà, di arrivare a sottoscrivere con il sindacato un’ipotesi di accordo di rinnovo contrattuale – spiega Luca Degani, presidente di Uneba Lombardia – che riguarda oltre 150 mila lavoratori in Italia di cui oltre un terzo in Lombardia. L’aumento di circa 10 punti percentuali, su un costo del lavoro di oltre 4 miliardi di euro, vuol dire una spesa di 400 milioni a favore dei propri lavoratori che debbono trovare un riconoscimento economico da parte delle pubbliche amministrazioni che beneficiano di questo servizio di sussidiarietà”.