Milano – È tutt’altro che risolta la questione “romana” dei tetti alle tariffe per le prestazioni in regime di Servizio sanitario nazionale (che determinano sia la spesa delle strutture pubbliche che i rimborsi per quelle private accreditate) validi anche per le Regioni che non hanno i conti in rosso: uscito dopo una dura battaglia dal decreto ministeriale sul nuovo prontuario, sta rientrando dalla finestra del disegno di legge sulla Finanziaria. E la Lombardia rischia di perderci, nel senso di non poter spendere come fa oggi, 860 milioni di euro della sua quota di fondo sanitario nazionale.
L’ha chiarito ieri mattina l’assessore regionale al Welfare Guido Bertolaso, parlando in Assolombarda alla platea della settima edizione del Milano Life Science Forum, alla quale il rapporto biennale del centro studi dell’associazione degli imprenditori intanto dettagliava la salute di un settore che vale il 12,6% del Pil regionale, con un valore della produzione che nel 2022 ha sfiorato gli 85 miliardi di euro (+17,5% dal 2019) e un valore aggiunto vicino ai 30 miliardi (+16,4%) che contribuisce per il 2,5% al Pil nazionale di un Paese in cui il servizio sanitario nazionale, pur costando meno di tremila euro (2.947,1) a cittadino contro i 5.316,9 della Germania e i 4.309,8 della Francia, produce “un’aspettativa di vita più elevata dei benchmark e una mortalità infantile più bassa”, sottolinea il vicepresidente di Assolombarda con delega alle Scienze della vita Sergio Dompé, rimarcando che “i dati indicano che la Lombardia è un modello per l’intero sistema”.
“Con una spesa pro capite inferiore a quella di altre Regioni”, aggiunge l’assessore Bertolaso, e però intanto il servizio sanitario pubblico lombardo, pur essendo in equilibrio di bilancio, rischia di rimanere impigliato in cavilli che impediscono di spendere i soldi pubblici, seminati in una Finanziaria che sulla carta, sbandiera il centrodestra di governo, con 136,5 miliardi complessivi l’anno prossimo assegnerà “il più alto investimento mai previsto” al Fondo sanitario nazionale.
Bertolaso ha specificato già la scorsa settimana, agli Stati generali della sanità della Lega, di non avercela col Governo attuale (la stessa maggioranza che governa in Lombardia): “Sono i precedenti, da Monti in poi, che hanno messo una serie di vincoli e restrizioni”. Ma continua a chiedere che la Lombardia e le altre Regioni non in rosso siano “liberate dalle camicie di forza”. Come appunto, ha chiarito ieri, il “comma 4 dell’articolo 55 del disegno di legge finanziaria”, che “sopprime l’attuale possibilità delle Regioni in pareggio o rientrate dal debito di adeguare in base alla realtà locale le tariffe”, non solo per le prestazioni ambulatoriali ma “anche per quelle chirurgiche, cliniche”.
E di fatto ripristina i tetti erga omnes infilati in origine nel prontuario, che farebbero sì, ad esempio, “che una prestazione remunerata oggi 32 euro sia abbassata a 25”. Impedendo alla Lombardia di spendere nel 2025, oltre a complessivi “480 milioni” sull’ambulatoriale, “altri 380 milioni” sull’ospedaliero: in tutto “quasi un miliardo di euro – ha spiegato l’assessore –. Questo comporterebbe, tra l’altro, che i privati (accreditati, ndr), siccome le tariffe sarebbero fuori scala, passerebbero a erogare solo in solvenza. E tutti i pazienti che oggi accedono alle strutture private (in regime di Ssn, ndr) andrebbero nelle pubbliche, altro che abbattere le liste d’attesa”.
Per cancellare questa “norma iniqua”, sottolinea Bertolaso, le Regioni hanno presentato un emendamento alla Finanziaria che “credo passerà. In caso contrario avremmo una situazione estremamente difficile. Noi non chiediamo un euro in più, solo di usare la nostra parte del Fondo sanitario nazionale nel modo che riteniamo più utile per chi vive in Lombardia”.