
Sebastian Gatto, amministratore di Savini
Milano, 24 agosto 2018 - In tanti ci sono cascati. A fine 2017, capitò allo chef Antonino Cannavacciuolo (ne parliamo nell’articolo qui sotto) e al bistrot torinese gestito dalla moglie (accuse cadute). Destino comune ad altri big della cucina italiana, «pizzicati» dai controlli a sorpresa sullo stato di conservazione degli alimenti e sulla corrispondenza tra quanto servito in tavola e quanto presentato in menu. Tra loro, si scopre da una sentenza della Cassazione appena pubblicata, ci sono anche i proprietari del ristorante Savini in Galleria, incappati il 10 settembre 2012 in un blitz dei vigili dell’Annonaria: prodotti congelati «spacciati» per freschi senza le dovute avvertenze agli avventori, l’accusa dei pm.
Il procedimento per frode in commercio si è chiuso 6 anni dopo con la condanna definitiva a 4 mesi di reclusione per il 66enne Giuseppe Gatto, che ha rilevato l’attività nel 2010 insieme al figlio Sebastian e che all’epoca dei fatti era presidente del Cda della Ristorante Savini srl. Stando a quanto ricostruito, in via Foscolo 5 l’unico modo per rendersi conto della potenziale presenza di merce non di giornata era leggere due note, «a margine delle pagine di presentazione del locale», che recitavano: «Gentile cliente, la informiamo che alcuni prodotti possono essere surgelati all’origine o congelati in loco (mediante abbattimento rapido di temperatura), rispettando le procedure di autocontrollo ai sensi del reg. CE 852/04. La invitiamo quindi a volersi rivolgere al responsabile di sala per avere tutte le informazioni relative al prodotto che desiderate». Troppo poco per i giudici, che già in primo grado avevano parlato di metodi insufficienti «a garantire una puntuale informazione sulle qualità del prodotto venduto». Perché? «L’informazione tramite il menu non era adeguata per la conformazione grafica che sfuggiva all’attenzione dell’avventore». E ancora: «I prezzi dei prodotti e la loro presentazione nel menu, unitamente alle caratteristiche di ristorazione d’élite dell’esercizio, erano tali da indurre l’avventore medio a ritenere che il prodotto fosse fresco». Senza dimenticare che, «per prassi aziendale, buona parte dei prodotti, specie quelli ittici, erano preparati e abbattuti in loco anche se non destinati a essere somministrati crudi; spesso, date le caratteristiche dell’offerta, i prodotti freschi acquistati non erano sufficienti a soddisfare la domanda; al personale di sala non era stata impartita una specifica disposizione, affinché d’iniziativa informasse i clienti dello stato fisico del prodotto congelato; al momento del controllo, non erano stati rinvenuti prodotti freschi analoghi a quelli congelati o surgelati presenti nelle celle frigorifere». Conclusione: «L’uso di prodotti congelati e surgelati era la prassi e non l’eccezione, con conseguente inidoneità del menu a rappresentare il prodotto offerto». Certamente, il Savini avrà cambiato registro sin dal giorno dopo. Tuttavia, la condanna del gestore sta lì a ricordare di quanta attenzione necessiti un esercizio commerciale che somministra alimenti. Che sia un take away di periferia o il Salotto dei milanesi.