Milano, 26 luglio 2024 – Il numero degli ex alunni della scuola elementare “Francesco Crispi” di Gorla, sopravvissuti al bombardamento aereo americano del 20 ottobre 1944, si assottiglia ancora. Oggi a 87 anni, a Novara, si è spento Sergio Francescatti, uno degli otto bambini che per una serie di coincidenze del destino si salvarono dalla strage e uno dei quattro che erano ancora in vita. Insieme a Giuliano Lazzaroni, 90 anni (mancato lo scorso febbraio), Maria Luisa Rumi, 86 anni, e Graziella Ghisalberti, 87 anni, teneva viva la memoria dei 184 piccoli “martiri di Gorla”. Ogni anno, ogni 20 ottobre, anche l’anno scorso.
Non ha mai dimenticato i suoi compagni, le maestre, i bidelli: il suo racconto è sempre stato vivido anche se sono passati tanti anni (ottanta, quest’anno). Voce roca e sguardo di chi ha vissuto un trauma insuperabile, Francescatti non mancava di ricordare la fortunata sequenza di ritardi che gli impedì di arrivare al rifugio anti aereo della scuola, sotto le cui macerie morirono morirono 184 bambini, 14 insegnanti, la direttrice della scuola, quattro bidelli e un'assistente sanitaria.
Il racconto di quella mattina
Sergio Francescatti dovette la vita, quello che poi è riuscito con fatica a conquistarsi – la professione, la famiglia, i figli e i nipoti – a un cappotto e a un compagno di scuola più grande. “Quella mattina – ha raccontato l’anno scorso durante la cerimonia di ricordo – la maestra ci aveva assegnato un tema. Appena finì di scrivere il titolo alla lavagna suonò il piccolo allarme (gli avvisi dei bombardamenti erano due: il piccolo allarme, che segnalava le incursioni ma non un pericolo imminente, e il grande, che invece segnalava aerei molto vicini e imponeva di andare subito nei rifugi, ndr). La maestra ci radunò per andare nel rifugio, che era nella cantina della scuola. Io però mi attardai a trascrivere la traccia del tema e mentre tutti uscivano rimasi in classe. Dopo poco arrivò la bidella, che mi sgridò perché non ero ancora andato con gli altri. Mi incamminai, ma prima di arrivare sulle scale tornai indietro perché avevo dimenticato il cappotto. A quel tempo il cappotto era una cosa preziosa. Quello poi era particolarmente importante: era fatto con un vecchio cappotto di mio papà. Indossarlo mi faceva sentire grande e poi c’era la sensazione di portarmi addosso un po’ di mio papà. Proprio non potevo lasciarlo”.
“Così, mentre tutti erano ormai nel rifugio sono tornato indietro. Però io ero piccolo di statura e l’attaccapanni era troppo in alto per me. Il cappotto si è incastrato e non riuscivo a toglierlo dall’appendino. Sarei rimasto lì chissà quanto se non fosse arrivato un bambino di quinta, più alto, che mi aiutò. Così presi il cappotto e con la cartella in mano uscì dalla scuola insieme all’altro bambino. Appena fuori la bomba distrusse la scuola. Senza neanche accorgermene mi ritrovai per terra coperto di calcinacci. Ferito, incapace di fare qualsiasi cosa. Paralizzato. Quando ho girato lo sguardo, l’ho visto: il bimbo che era scappato con me, era lì, immobile. Morto. Con ancora la cartella e il cappotto in mano mi sono allontanato".
"Non capivo neanche dov’ero, mi sembrava di essere in un sogno. Tutto distrutto, polvere, odore di bruciato. Ho iniziato a camminare, rigido come un manichino, riuscivo solo a gridare “Mamma!”. Fortunatamente ho incrociato un vicino di casa che mi ha riconosciuto e mi ha portato da mia mamma. Quando mi ha visto, tutto sporco di sangue e calcinacci, si è spaventata, poi mi ha abbracciato fortissimo. Solo quando mi ha stretto mi solo sbloccato e ho lasciato andare la cartella e il cappotto”.
Le ferite del signor Sergio non erano gravi e se l’era cavata in qualche giorno. Molto più difficile era stato curare le ferite che un’esperienza del genere ha lasciato nello spirito di un bimbo di soli 8 anni. “Per molto tempo non ho parlato. E anche quando ho ricominciato, sono sempre stato un bambino silenzioso. Mi spaventavo per ogni minimo rumore. Ero timido, mi sentivo sempre insicuro”. Con grande fatica Sergio è riuscito però a conquistarsi la sua normalità. Il lavoro da geometra, l’amore della moglie, i figli, i nipoti. “Certo, quella mattina non l’ho mai dimenticata”.