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Milano, 17 dicembre 2020 - Ora che lo si è sperimentato, ci si è accorti anche delle sue controindicazioni. Si tratta dello smartworking, la modalità di lavoro da remoto imposta dall’emergenza Coronavirus: secondo una ricerca dell’Osservatorio Smartworking della School of Management del Politecnico di Milano, tra marzo e maggio, «nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti italiani, circa un terzo del totale e 10 volte di più rispetto ai 570mila del 2019, lo hanno provato». Ed ora che è entrato nella nostra quotidianità, lo smartworking sembra destinato a rimanerci.
Da qui l’evoluzione compiuta in questi mesi: se all’inizio lo smartworking è giocoforza coinciso con il lavoro da casa, con il progressivo allentamento di divieti e restrizioni se n’è scoperto il significato più autentico: lavoro da remoto, non necessariamente dalle mura domestiche. È in questa evoluzione che si inserisce Nibol, la start-up dell’ufficio diffuso, e la sua indagine, condotta su un campione di 20mila smartworker che ha messo in luce, come anticipato, le controindicazioni del trasformare la casa in ufficio. Nel dettaglio, il 30% dei partecipanti al sondaggio ha indicato come primo aspetto negativo la solitudine in cui si è costretti a lavorare stando a casa e la mancanza di chiacchiere con colleghi e clienti. Segue, con il 28% delle preferenze, la condivisione forzata degli spazi di casa. Figli che seguono la didattica a distanza, compagne e compagni a loro volta in smartworking, la presenza di animali domestici: «La convivenza in una stessa stanza e la condivisione di computer e connessione internet sono motivo di stress per chi lavora da casa» fa sapere Nibol sulla base del sondaggio. Ancora, «per il 20% degli intervistati, lavorare da casa significa perdere completamente il work-life balance: lavorare nello stesso luogo in cui si cucina, ci si rilassa sul divano provoca una continua invasione dell’ambito professionale in quello privato e viceversa. Col rischio di passare la giornata in pigiama».
C’è poi la questione legata ai costi: per il 12% degli intervistati lavorare da casa è causa di costi extra: le bollette, ad esempio. Infine, al 10% degli intervistati «pesa la sedentarietà». Insomma: ok al lavoro smart, ma non necessariamente da casa. «Nibol nasce per aiutare gli smartworker a trovare postazioni di lavoro in luoghi diversi: caffetterie e bar attrezzati, ma anche coworking o sale riunioni a tempo. Qui è possibile stare insieme ad altri, attivare nuove routine e tutelare la separazione degli ambienti di casa e di lavoro» spiega Riccardo Suardi, fondatore di Nibol.