Vaprio d'Adda (Milano), 23 giugno 2019 - Il padre, che abita al terzo piano, non può avere un’arma in casa. Il figlio, che vive al primo della stessa villetta, invece sì. In sintesi, il verdetto del Tar sui ricorsi presentati da Francesco Sicignano e dal figlio contro la decisione della Prefettura di Milano di vietare al sessantanovenne e a «ogni familiare convivente» di detenere armi, munizioni ed esplosivi. Una decisione presa il 22 ottobre 2015, cioè due giorni dopo il fatto che tutti ricorderete e che riaprì il dibattito sulla legittima difesa all’interno delle mura domestiche: il pensionato sorprese un ladro, l’albanese Gjergi Gjoni nella cucina di casa sua, a Vaprio d’Adda, e, vedendolo nel buio avvicinarsi «minacciosamente», gli sparò un colpo di Colt 38 uccidendolo.
Indagato per omicidio volontario, nel dicembre 2017 il giudice Teresa De Pascale archiviò l’accusa, prendendo atto di approfondimenti investigativi, analisi medico-legali e perizie balistiche e ritenendo veritiera la versione di Sicignano: «Subito dopo l’esplosione di un colpo, ho visto l’uomo effettuare un salto felino dalla finestra della zona dove è posizionata la cucina e allontanarsi frettolosamente dal tetto». In quell’occasione, il giudice dispose pure il dissequestro della pistola e la restituzione al pensionato. Che, però, non può detenerla tantomeno usarla. Sì, perché, come detto, il Tribunale amministrativo ha reputato corretto il provvedimento della Prefettura del 2015.
Il motivo? «La legittimità deve essere valutata alla luce della situazione di fatto e del quadro normativo di riferimento esistenti al tempo di emanazione del provvedimento». All’epoca, 48 ore dopo la sparatoria, «le informazioni a disposizione del prefetto evidenziavano che il corpo della vittima era stato ritrovato bocconi sulla rampa di scale all’esterno dell’abitazione, come se la vittima stesse salendo le scale nel momento in cui veniva raggiunto da un proiettile al torace». E ancora: «All’interno dell’abitazione non erano state rinvenute né tracce di sangue né l’ogiva del proiettile». Quindi, «tali dati rendevano verosimile, al tempo di adozione del decreto impugnato, la tesi secondo cui il ricorrente non avesse agito in una situazione di legittima difesa». Il fatto che la successiva inchiesta abbia poi portato all’archiviazione delle accuse, il ragionamento, non può mettere in discussione la bontà della scelta. Detto questo, nulla vieta a Sicignano di presentare «una nuova istanza tesa a consentirgli ex novo la detenzione di armi e munizioni». Un passaggio che il figlio potrà evitare. Contestualmente, infatti, il Tar ha accolto il ricorso di quest’ultimo, a sua volta privato del porto d’armi perché familiare convivente del pensionato. Per i giudici, padre e figlio vivono in due «distinte unità abitative, anche catastalmente separate», seppur a due piani di distanza l’uno dall’altro; e «non vi sono neppure elementi per ritenere sussistente la concreta possibilità per il padre di accedere all’abitazione del figlio e la conseguente possibilità di entrare facilmente in possesso delle armi detenute da quest’ultimo».