
Mina
Milano, 19 agosto 2019 - «Il truccatore un po’ il lavoro di un artigiano, di un restauratore. Sono un restauratore mancato». In che senso, scusi? Stefano Anselmo è un’autorità nel campo del trucco, ha lavorato, tra gli altri, ai look di Mina, Mia Martini, Platinette e Renato Zero. Suoi sono i manuali utilizzati in molti corsi di make up. I truccatori che ha formato negli anni, in Italia e fuori, sono migliaia.
Le sue modelle non gradirebbero la definizione di “restauratore”.
«Nei miei corsi preferisco scegliere sempre modelle con facce brutte, difficili, perché il trucco deve servire a tutte le persone e migliorare eventuali difetti. E in questo lavoro la componente tecnica, da artigiano, è importantissima. Pensi che un tempo a truccare i nobili erano chiamati i pittori stessi, lo racconta Cennino Cennini nel Libro dell’Arte».
Come nacque questa passione?
«Mi capitò tra le mani una rivista con una dichiarazione di Alberto De Rossi, il truccatore che creò le famose sopracciglia ad ali di gabbiano di Audrey Hepburn. De Rossi diceva di essere soddisfattissimo come ideatore del look, perché molte donne cercavano di imitarlo, ma come truccatore inorridiva. Il look era studiato sul volto dell’attrice, tanto che il disegno delle sopracciglia ripeteva al contrario quello delle mandibole, quindi imitarlo era stupido. Il fatto che quel ciuffetto di peli potesse avere un ruolo così importante mi aprì un mondo: cominciai a guardare le facce come composizioni geometriche, in cui se sposti volumi succedono cose, nel bene e male».
Il trucco trasforma in altri o in se stessi?
«Bisogna distinguere il trucco per migliorare un viso e quello artistico. È comunque sempre una maschera per avvicinarci a quello che vorremmo essere. A Torino mi chiamò una signora di famiglia nota con un viso bellissimo, da cammeo ottocentesco, che io cercai di valorizzare. Lei quando si specchiò disse: “Mi vedo molto più bella, ma così sono troppo per bene”. Capii che avevo sbagliato, del resto un segnale me lo aveva dato: per raccogliersi i capelli si era messa non forcine ma delle mutandine di pizzo nero in testa. Allora la resi un po’ meno per bene. Mi disse: “Grazie, così mi sento più sicura”. Con questa maschera da mangiauomini si sentiva protetta. Questo è il trucco».
Perché solo le donne si truccano nel senso più proprio del termine?
«In Africa spesso gli uomini sono più curati delle donne, tra creme e tinture. È una questione unicamente culturale. Come lo sono i gusti in fatto di estetica del viso susseguitisi nella storia».
Per esempio?
«Per esempio le sopracciglia unite. Oggi da noi non sono apprezzate, eppure fino agli antichi romani è stato un elemento di bellezza, come dimostra per esempio il ritratto della moglie del panettiere a Pompei. La moda è nata in Mesopotamia, dove le persone erano tendenzialmente più pelose. Si è trasmessa agli egiziani, poi ai greci e ai romani. Nel Satyricon, Encolpio e Ascilto vendono capelli e sopracciglia a un barbiere, a dimostrazione che esisteva persino un commercio di sopracciglia “finte”, per chi voleva infoltirsele».
Da anni studia il trucco nella Storia, cosa è cambiato nel tempo?
«Tutto. Per noi la donna malamente e pesantemente truccata è identificata come una prostituta. Ai tempi del Re Sole le prostitute non potevano truccarsi. Invece più ci si avvicinava alla cerchia del re, più ci si poteva coprire di colore, soprattutto rosso. Lo racconta Casanova. La letteratura, la storia, le testimonianze degli osservatori antichi ci dicono molto di ciò che è stato il trucco nell’antichità. Serve solo qualcuno che metta assieme tutti i pezzi e ne racconti la storia».