Milano – La mattina del 20 ottobre 1944 a Milano splendeva il sole. Era autunno ma sembrava primavera. “Era una giornata meravigliosa, veniva voglia di andare a passeggio tutto il giorno”, sono le parole che ricorrono tra chi c’era. Un po’ come accade in questi giorni. Nel 1944 però Milano era una città in guerra. Certo, le cose dopo l’8 settembre dell’anno prima, erano molto cambiate. La speranza stava diventando sempre più concreta. In tanti tornavano dalla Brianza, dalla campagna lecchese e comasca dov’erano sfollati, convinti che la guerra fosse ormai alla fine.
Milano obiettivo strategico
Milano però restava il centro economico e politico della Repubblica Sociale, lo stato fantoccio di Mussolini e degli occupanti tedeschi. Quel 20 agosto, per esempio, era in visita in città il ministro tedesco degli armamenti Albert Speer. Le fabbriche e i quartier generali più importanti erano a Milano e nella sua provincia. Ecco perché era un obiettivo fondamentale degli anglo-americani, la cui risalita dello Stivale occupato dai tedeschi si era bloccata dall’agosto 1944 lungo la Linea gotica, l’imponente fortificazione difensiva organizzata dai nazisti in Centro Italia, tra Massa a ovest e Pesaro a est. C’erano poi motivazioni politiche e psicologiche: terrorizzare la popolazione per spingerla a ribellarsi al regime e dimostrare quanto mortale fosse l’abbraccio tra Italia e Germania.
Il decollo dei bombardieri
La mattina del 20 ottobre del 1944 dall’aeroporto di Castelluccio dei Sauri, 30 chilometri a sud di Foggia, decollarono tre squadriglie di bombardieri americani B24 Liberator. 103 velivoli in tutto. Era in programma il più grande bombardamento su Milano da quello terribile del 13 agosto 1943. Ogni aereo portava un carico di 10 bombe da 220 chili ciascuna. Circa 250 tonnellate di esplosivi in totale.
Alfa, Isotta Fraschini e Breda
I bombardieri erano divisi in tre gruppi: i loro obiettivi erano la grande fabbrica della Breda di Sesto San Giovanni, l’Isotta Fraschini di via Monterosa e l’Alfa Romeo al Portello. Industrie meccaniche e siderurgiche riconvertite a scopi bellici. La Breda in particolare era una delle più importanti industrie siderurgiche italiane: dai suoi stabilimenti uscivano gli acciai speciali per gli armamenti in dotazione all’esercito. Anche se ormai quello che rimaneva a Sesto era poca cosa rispetto alla potenza produttiva degli anni prebellici.
L’errore di rotta
Le missioni sull’Alfa e sull’Isotta Fraschini raggiunsero gli obiettivi. Gli stabilimenti vennero distrutti. Nella sola Alfa si registrarono 80 morti. La missione sulla Breda fu invece un disastro. Prima, nel gruppo di testa dei bombardieri un guasto tecnico a bordo di un aereo provocò lo sganciamento anticipato delle bombe lontano dagli obiettivi, in aperta campagna nella zona di Saronno, senza causare vittime. Poi il tragico errore sulla rotta da seguire: raggiunto il punto prestabilito, la squadriglia virò a destra, anziché a sinistra. I bombardieri si ritrovarono così lontano dagli obiettivi strategici con l’incubo di essere intercettati dalla contraerea o dai caccia tedeschi (in realtà, nessuno dei due sistemi difensivi entrò in azione). La decisione fu quindi di fare subito ritorno alla base: bisognava però liberarsi del carico di bombe già innescate sui velivoli, circa 2,2 tonnellate per ogni apparecchio. L’ordine fu di sganciarle subito senza aspettare di essere in una zona disabitata.
Gorla e Precotto distrutte
Fu così che su Gorla e Precotto, verso le 11.30 di quel 10 ottobre 1944 si riversò un diluvio di bombe. I due quartieri popolari, nei quali non c’era alcun obiettivo strategico, ma solo case, scuole e negozi, vennero devastati. Alla fine della giornata in tutta Milano si conteranno 641 morti.
La bomba sulla scuola
Una delle bombe dei B24 americani centrò in pieno la scuola elementare Francesco Crispi in piazza Redipuglia a Gorla. Sfondò il tetto, attraversò la tromba delle scale ed esplose nel cuore dell’edificio. 184 bimbi tra i 5 e gli 11 anni, 14 maestre, 4 bidelli. Tutti morti. Solo 8 piccoli, per le coincidenze più fortuite, si salvarono. Chi per le ustioni, chi per i crolli. La peggiore strage di civili in Italia. L’esplosione fu talmente devastante che i corpi di alcune vittime non vennero mai ritrovati. Un’intera comunità, quella del piccolo quartiere operaio, distrutta: non c’era persona che non avesse perso un figlio, un nipote, un amico.
Strage dimenticata
Una strage per la quale nessuno ha mai pagato e che anzi è stata in fretta dimenticata, o perlomeno accantonata, dalle istituzioni e dalle forze politiche. Durante la fine di quel 1944 la propaganda della Rsi cercò di sfruttare la strage sostenendo che in realtà svelasse “il vero volto dei liberatori” rendendola – in un momento di tragiche contrapposizioni – un argomento “di parte”. Dopo la guerra il ricordo di quel terribile errore (se di errore si trattò) degli americani era argomento politicamente troppo sensibile per un Paese in ginocchio che cercava di trattare una resa onorevole e aiuti economici con i vincitori. Il risultato fu che l’orrore venne confinato nel piccolo quartiere a nord della città, divenne la storia dei Piccoli Martiri di Gorla, quasi fosse una triste favola, una delle tante storie legate al passato del quartiere, un’eco dolorosa della Piccola Parigi.
Il monumento conquistato
La stessa storia del monumento che sorge nella piazza che un tempo ospitava la scuola (ora piazza Piccoli Martiri di Gorla), davanti a uno dei pochi segni rimasti della Gorla che fu, il ponte vecchio sula Martesana, racconta di quanto la strage del 20 ottobre fosse un episodio da seppellire e dimenticare. Dopo la guerra, quello che restava della scuola – un edificio sventrato, con le aule affacciate sulle macerie – fu abbattuto. L’area venduta e destinata ad ospitare un cinema. Furono i genitori dei piccoli morti e gli abitanti del quartiere, decisi a non vedere il proprio dolore cancellato e umiliato da interessi politici ed economici, a mettersi di traverso. Si organizzarono e si presentarono dal sindaco Antonio Greppi per chiedere di fermare tutto e permettere la costruzione di un monumento per ricordare i bambini morti sotto le bombe. Il sindaco, lui stesso padre di un ragazzo ucciso in un vigliacco agguato sul tram dai fascisti, accettò. Il comitato dei genitori e degli abitanti allora si organizzò. Raccolse fondi – perché dal Comune ottennero solo l’autorizzazione, non certo soldi – si autotassò e alla fine riuscì a realizzare il monumento, affidato allo scultore Remo Brioschi, tanto semplice quanto efficace. Una vera opera di arte popolare. Senza sottintesi, seconde letture, intellettualismi. Una madre che tiene tra le braccia il corpo del proprio figlio morto e la scritta “Ecco la guerra”. Un messaggio che, quasi 80 anni dopo, i bambini morti sotto le bombe a Gorla ancora ripetono. Ma che ancora nessuno ascolta.