Milano, 5 novembre 2019 - Cinquant’anni dopo la strage di Piazza Fontana, con 17 morti e 88 feriti, la serie di articoli con cui “Il Giorno” intende ricordare e raccontare quella drammatica stagione arriva alla quarta puntata. Al centro della storia, dopo le vicende dell’inchiesta sugli anarchici, con l’arresto di Pietro Valpreda e la morte di Pino Pinelli, l’avvio - riluttante e contraddittorio - delle indagini sulla cosiddetta “pista nera”, le cui vicende cominciano in Veneto, concentrandosi da subito sulla figura di Giovanni Ventura, il libraio di simpatie neofasciste che tornerà a lungo nelle carte di tante indagini su quegli anni tormentati. Tutta colpa del bidello. L’anarchico Pietro Valpreda è stato arrestato di prima mattina e sta per diventare il “mostro” di Piazza Fontana, il tassista Cornelio Rolandi sta raccontando ai carabinieri di aver portato un cliente con una borsa in mano a due passi dalla Banca nazionale dell’Agricoltura il pomeriggio della bomba, e quella sera stessa il ferroviere Giuseppe Pinelli precipiterà da una finestra della questura. Ma intanto in Veneto, a trecento chilometri di distanza, alle undici di mattina del quel lunedì 15 dicembre 1969, il bidello di una scuola media chiama i professori davanti alla tivù che manda in onda, in diretta da Milano, i funerali delle vittime della strage in una piazza Duomo dolente e attonita.
È in quel preciso momento, davanti allo schermo in bianco e nero, che uno di quei docenti capisce di non per più tacere. Si chiama Guido Lorenzon, ha 28 anni, insegna francese ed è anche il segretario di una sezione Dc del Trevigiano. Ma, soprattutto, è amico di un giovane libraio di quelle parti, Giovanni Ventura, di simpatie neofasciste, che da mesi gli sta facendo degli strani discorsi su attentati, bombe, morti. Alcuni particolari sembrano coincidere: possibile che davvero Ventura c’entri qualcosa con la strage? Quella sera stessa Lorenzon si confida con un avvocato, che nei giorni seguenti prende appuntamento con un giovane magistrato di Treviso, Pietro Calogero, destinato a far parlare di sé, un decennio dopo, per un’inchiesta molto discussa sul terrorismo di sinistra.
Calogero prende sul serio i racconti di Lorenzon, che però ovviamente è pieno di dubbi e sensi di colpa per aver denunciato un amico. Ventura, messo al corrente dallo stesso Lorenzon, prima tenta di fargli cambiare idea (e il professore in un primo tempo ritratta l’esposto), ma poi a sua volta denuncia l’amico per calunnia, spalleggiato dal suo sodale Franco Freda, procuratore legale padovano di origini irpine, il capo della cellula neonazista padovana cui anche Ventura aderisce. Perché, in realtà, Freda e Ventura sono nomi noti a Padova, insieme ad un gruppo di camerati tutti già sospettati di aver seminato ordigni in quella zona, in particolare la bomba che il 15 aprile di quel ’69 era esplosa nello studio del rettore dell’Università Enrico Opocher, un ex partigiano laico e per di più ebreo. Sui “neri” di Padova ha già tentato di indagare il commissario di polizia Pasquale Juliano, che però è stato rimosso dall’incarico e trasferito, perché in città Freda e i suoi camerati hanno amicizie che contano.
Il giovane pm trevigiano Pietro Calogero, però, le indagini le manda avanti insieme al giudice istruttore di quella stessa città Giancarlo Stiz, schivo e imperturbabile nonostante le critiche, le accuse e le vere e proprie minacce che riceverà in seguito. Però al magistrato servono prove, così Calogero convince Lorenzon a mettersi addosso un microfono per registrare le sue conversazioni con Ventura, che continua comunque a frequentare. Peccato che per due volte il registratore a bobine fornito dalla polizia si riveli non funzionante, davvero strano. Al terzo tentativo, finalmente, tutto fila liscio. Però sbobinatura e trascrizione vengono affidate dalla Polizia a un agente di origini meridionali, che del dialetto veneto parlato da Lorenzon e Ventura, non capisce una parola. (4 - Continua)