MARIO CONSANI
Cronaca

Strage di piazza Fontana, il silenzio dei ministri

Da Andreotti a Zagari, da Tanassi a Rumor: nessuno svelò ai giudici di Catanzaro chi avesse imposto il segreto di Stato

Giulio Andreotti durante una delle udienze a Catanzaro

Giulio Andreotti durante una delle udienze a Catanzaro

Milano, 10 dicembre 2019 -  Anarchici , neofascisti e uomini dei servizi segreti: tutti alla sbarra. Quando finalmente il 18 gennaio 1977 il dibattimento può iniziare, dalla bomba esplosa nella Banca nazionale dell’Agricoltura sono già passati sei anni. Però chi sperava di rendere il processo invisibile spedendolo a Catanzaro, sbagliava i calcoli. Per la prima volta gli italiani vedono passare in tivù all’ora di cena i loro ministri come testimoni davanti ai giudici, e il risultato è imbarazzante per i politici. Ormai - siamo nel ’77 - lo sanno tutti che il giornalista di destra Guido Giannettini era l’agente Zeta del Sid, il servizio segreto militare. Ma nel giugno del ’73, quando Ventura ammise di aver compiuto alcuni attentati e disse di rispondere a Giannettini, il giudice Gerardo D’Ambrosio chiese ai vertici del Sid se quello era davvero un loro collaboratore. E i capi del servizio si rivolsero al governo: venne opposto il segreto politico-militare. È il momento simbolico in cui, si può dire, piazza Fontana diventa “strage di Stato”.

A Catanzaro i giudici cercano di capire chi lo decise. Nei giorni di luglio in cui partì la risposta, Giulio Andreotti era stato sostituito alla guida del governo da Mariano Rumor. Al processo, Andreotti quindi nega la riunione di governo su Giannettini, e man forte gli dà il ministro della Giustizia di allora, il socialista Mario Zagari, che rammenta un proprio diretto intervento sul presidente del Consiglio che – dice – era Rumor, affinché indicasse al ministro della Difesa Mario Tanassi, socialdemocratico, la via della rinuncia all’apposizione del segreto. Ma sia Rumor che Tanassi a loro volta negano, non ricordano, si chiudono in imbarazzati silenzi. L’Italia intera assiste attraverso gli schermi asettici ma impietosi della tivù a quella passerella indecente di ministri che balbettano, non trovano le parole, guardano altrove. Arriva il 23 febbraio 1979 la prima sentenza per Piazza Fontana, nove anni dopo la strage: ergastolo per Freda, Ventura, e Giannettini; assolti per insufficienza di prove l’anarchico Pietro Valpreda e l’infiltrato Mario Merlino; quattro anni al generale Maletti e due al capitano Labruna per il depistaggio. Le prove contro i neonazisti sono numerose: il «legame societario» che ha unito Freda e Ventura nel programma di attentati i destinati a «traumatizzare l’opinione pubblica». Poi l’escalation di questo progetto, con la prova della loro attiva partecipazione – accertata – fino alla notte delle bombe sui treni, nell’agosto ’69. I discorsi fatti da entrambi successivamente, a conferma dei progetti sempre più sanguinosi. La ricerca di cassette metalliche per ordigni e l’acquisto di timer, da parte di Freda, che risulteranno uguali a quelli realmente utilizzati per Piazza Fontana. L’acquisto avvenuto il 10 dicembre proprio a Padova, dove risiede Freda, di quattro borse uguali a quelle usate per gli attentati.

La verità sulla strage sembra ormai raggiunta. Non sarà così. Una prima volta a Catanzaro nel processo d’appello, e poi - dopo l’intervento della Cassazione - di nuovo a Bari nell’appello-bis, pur sulla base delle stessi elementi indiziari le condanne vengono ribaltate in assoluzioni sia pure per insufficienza di prove. Alla fine, siamo ormai nel gennaio del 1987 - ben 17 anni dopo Piazza Fontana - pagano solo i due uomini dei servizi segreti Maletti e Labruna per aver fatto fuggire all’estero, nel corso delle indagini, lo stesso agente “Zeta” Giannettini e il bidello padovano Marco Pozzan, braccio destro di Freda.