Milano, 19 ottobre 2019 - A cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, a Milano, con i suoi 17 morti e 88 feriti, “il Giorno” dedicherà una serie di articoli a un fatto che ruppe in modo definitivo gli equilibri sociali del primo dopoguerra. L’inizio di un filo rosso segnato da altri attentati sanguinosi, come la strage di Brescia del 1974, quella del treno Italicus dello stesso anno, e quella della stazione di Bologna del 1980. Vicende dolorose, segnate da una faticosa ricerca della verità, depistaggi e torbidi legami con la politica internazionale e interna. Il nostro quotidiano punta a riannodare quei fili, sulla base di quanto le inchieste hanno fin qui ricostruito. La bomba, quella esploderà il 12 dicembre del ’69 nel grande salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana. Ma la storia della strage comincia prima, a metà ottobre. Meglio: già nei mesi precedenti erano scoppiati degli ordigni in città, il 25 aprile al padiglione della Fiat alla Fiera campionaria e anche all’Ufficio cambi in stazione Centrale, ma senza feriti gravi. Le indagini della polizia avevano puntato da subito sugli anarchici e non per caso, quella era la direzione preferita dagli uomini dell’Ufficio affari riservati di Roma, una sorta di servizio segreto civile che dava ordini alle questure e rispondeva al ministro degli Interni. A guidare l’Ufficio, uomini che erano stati fascisti o che avevano addirittura collaborato con i nazisti. Era un anno particolare, quel 1969, ricco di fermenti legati alle proteste studentesche iniziate l’anno prima a Parigi con il Maggio francese, ma alimentate anche da scioperi nelle fabbriche per migliori condizioni di lavoro, e da scontri tra estremisti di destra e di sinistra che finivano spesso nel sangue. E i governi a guida Dc, dopo le aperture ai socialisti con il centro-sinistra dei primi anni ’60, ora temevano soprattutto l’avanzata elettorale del Pci.
Per gli ordigni scoppiati il 25 aprile a Milano era stata arrestata anche una coppia di anarchici, gli uomini del commissario Luigi Calabresi puntavano su di loro per arrivare al noto editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli. Ma a ottobre è su un altro anarchico che si spostano le attenzioni della polizia: Pietro Valpreda. Ballerino trentacinquenne di alterne fortune, testa calda poco apprezzata anche dai compagni milanesi del circolo Ponte della Ghisolfa, piccoli precedenti, ma parole di fuoco e frasi non certo pacifiste anche stampate su volantini. A metà ottobre Valpreda, che vive tra Milano e Roma, esce dal circolo anarchico Bakunin per fondare nella capitale un gruppo che fa capo a lui, il “22 Marzo”.
Lo segue uno sparuto numero di ragazzi, una decina in tutto compresi i minorenni e un giovanissimo Mario Merlino, anarchico debuttante, visto che è sempre stato neofascista e allievo del romano Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, gruppo di estrema destra. Ma la vera stranezza è che in quel circolo di spiantati con la sede in un buio garage di via Governo Vecchio, la questura di Roma “infiltra”, apparentemente senza motivo, un proprio agente che assume le sembianze del “compagno Andrea”. Non l’unico corpo estraneo, in realtà, visto che insieme a Merlino era entrato nel circolo anche un suo amico neofascista e un altro confidente dei servizi segreti. Ma perché quelle attenzioni sul neonato “22 Marzo”? Lo si capirà non subito dopo la strage del 12 dicembre, ma negli anni a venire. Valpreda, il ballerino testa calda era la persona giusta, nel caso qualcuno avesse voluto far ricadere sulla sinistra la colpa di quanto stava per accadere a Milano: un “botto” più forte del solito, più di quelli dell’aprile precedente e di quegli altri in una notte d’agosto sui treni delle vacanze. Tutti ordigni sistemati e fatti esplodere da un gruppo di esaltati neonazisti veneti di Ordine nuovo, diranno le sentenze delle corti giudiziarie. Per spaventare la gente, farla sentire insicura, spegnere l’eccitazione che sembrava aver preso gli studenti, gli operai e molte altre persone in Italia. “Botti” - almeno fino a quello tragico di piazza Fontana - che di sicuro non erano dispiaciuti a chi era al governo e puntava sulla paura degli elettori per tenersi il potere. (1 - Continua)