Dopo il fermo aveva provato a screditare la vittima, raccontando di rapporti consenzienti e conoscenza pregressa per questioni di droga. I video hanno inchiodato Fadil Monir, il 27enne marocchino senza fissa dimora che lo scorso 27 aprile ha violentato una donna che stava andando a prendere il treno alla stazione Centrale. La donna è stata stuprata nell’ascensore, fatto che, peraltro, ha sollevato interrogativi sulla sicurezza in un luogo frequentato ogni giorno da migliaia di passeggeri. Il marocchino è stato condannato a 8 anni di carcere, al termine del processo con rito abbreviato, che consente lo sconto di un terzo della pena. Nelle interessanti motivazioni della sentenza che portano la firma del giudice Silvia Perrucci si delineano chiaramente i contorni di una fattispecie di violenza sessuale, che in passate sentenze è stata ritenuta dubbia.
Non conta che la ragazza poi divenuta vittima, soffrisse di depressione e nemmeno che si sia intrattenuta a chiacchierare e bere spontaneamente con il ragazzo che poi diventerà il suo aggressore. Non conta nemmeno, che lui non abbia percepito il dissenso di lei. Un no è un no. "Non può condividersi la tesi secondo cui la credibilità intrinseca della persona offesa sarebbe carente a causa del disturbo depressivo di cui la stessa donna ha dichiarato al servizio Svs di aver sofferto in passato, posto che non solo non vi è alcun accertamento psicologico o psichiatrico che attesti l’attualità di una tale patologia al momento dei fatti, ma soprattutto la depressione non è certo una condizione che mina le facoltà cognitive di chi ne è affetto", si legge nelle motivazioni.
E ancora: "Anche l’ulteriore tesi sostenuta dalla difesa secondo cui la signora non sarebbe credibile per essersi trattenuta a conversare in compagnia dell’imputato e di altri due suoi connazionali prima degli eventi, come riferito dal teste A, risulta del tutto irrilevante, dovendosi ricordare come la pregressa frequentazione dell’aggressore nei momenti precedenti al fatto di reato e l’assunzione di alcoolici in sua compagnia, non solo non rileva in tema di consenso all’atto sessuale, tanto più se realizzato con violenza, ma nemmeno può incidere sulla credibilità della vittima".
E, sempre usando le parole del giudice: "Non rileva neanche - prosegue - che tale dissenso non sia stato percepito, per commettere il reato di violenza sessuale, poiché è già di per sé sufficiente che l’agente non abbia la ragionevole certezza che vi sia un consenso pieno, iniziale e permanente al compimento dell’atto sessuale". (Cass., Sez.3, Sentenza nr. 3326/2022). Dunque, nel dubbio, l’agente deve astenersi dall’iniziare o dal continuare il rapporto sessuale, espressione della sfera sessuale altrui. E quindi della libertà altrui.