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Roberto Carlo Rossi rappresenta i medici di Milano
Milano, 25 novembre 2019 - «Per sua natura il medico si adopera per allontanare la morte, non per darla». Fa una premessa Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi ed odontoiatri di Milano, parlando della sentenza della Consulta sul caso dj Fabo. Traccia un distinguo tra il certificare lo stato di salute di chi ha scelto di porre fine alla propria vita e l’accompagnare materialmente il paziente nell’ultimo viaggio. Nel primo caso «il ruolo del medico è fondamentale, anche per evitare abusi». Nel secondo, eventualità molto più rara, «potrebbero esserci problemi di coscienza, e anche il medico va tutelato» .
Da medico, come giudica le motivazioni della Corte Costituzionale? «La sentenza è condivisibile e dice cose di buon senso, anche perché il Parlamento italiano finora non ha legiferato sul tema. È importante anche ribadire la libertà di autodeterminazione del medico, perché per nostra natura noi ci adoperiamo per allontanare la morte. Il medico deve essere sempre libero di dire “non me la sento”. Si tratta di temi molto complessi, anche perché il progresso della medicina e della tecnologia è stato tale da prolungare la vita di persone colpite da malattie o incidenti che in altre epoche sarebbero morte sicuramente, come è il caso di dj Fabo. Per questo il problema si pone con così tanta forza in questa epoca, e bisogna trovare un giusto bilanciamento».
Serve una legge? «In Italia ci sono già troppe leggi, non credo che ne servano altre. Secondo me è sufficiente una modifica del codice penale nella parte sul reato di aiuto al suicidio, stabilendo una esimente in questi casi particolari».
Per i medici potrebbero esserci problemi di coscienza? «Una mera attestazione dello stato patologico, su parametri oggettivi, non credo possa provocare problemi di coscienza. Anzi, il filtro di un medico è indispensabile per evitare abusi. Per me il ruolo di un medico potrebbe esaurirsi in questa fase. Attestare e certificare è nella potestà di un medico, mentre dare la morte non lo è. Porre in essere materialmente un “aiuto al suicidio” potrebbe porre problemi di coscienza. In questa seconda fase, però, non c’è bisogno della presenza del medico curante, a meno che non decida di accompagnare il paziente nel suo ultimo viaggio per una sua libera scelta, per questioni affettive che esulano da quelle professionali».
L’associazione Luca Coscioni parla di «sentenza storica». Condivide questa visione? «La condivido in parte, forse non con la stessa enfasi di chi ha portato avanti la battaglia. È storica, almeno per l’Italia, perché risponde a nuove istanze della società che sono dovute anche agli enormi progressi della medicina nel prolungare la vita. Ma questa sentenza rappresenta anche una sconfitta».
Perché? «I giudici sono dovuti arrivare dove il Parlamento ha fallito. Sicuramente c’erano delle lacune, e la Consulta si è mossa più in fretta del legislatore».
Per voi medici che cambiamenti ci saranno? «Nella pratica non penso che ci saranno grossi cambiamenti. Piuttosto credo che sarà necessario fare un piccolo aggiustamento al nostro codice deontologico, che ora esclude in maniera decisa l’eutanasia. Se un medico accompagna un paziente verso il suicidio assistito commette una violazione del codice. Per questo bisogna aggiornarlo, recependo la sentenza della Consulta. La priorità sono altre, ma è un passaggio che secondo me deve essere fatto».