«L’oncologo mi ha chiaramente spiegato che il protocollo di cura ha lo scopo di ottenere un “contenimento del tumore” (citazione testuale). Quindi non una guarigione. Le mie speranze di giungere alla guarigione e di poter ritornare ad una qualità della vita non dico soddisfacente, ma almeno accettabile sono molto ridotte o nulle. Il proseguimento del protocollo di cura mi esporrebbe a ulteriori sofferenze per almeno un anno o più, senza molte probabilità di successo. In questa situazione intendo liberamente ed autonomamente porre fine al protocollo di cure, affrontandone consapevolmente le infauste conseguenze. A seguito di questa decisione, mi rivolgo quindi alla vostra Organizzazione affinché mi aiuti a porre fine alla mia vita in modo dignitoso e senza ulteriori sofferenze fisiche e psicologiche". È l’ultimo messaggio pubblico di Margherita Botto, 74 anni, milanese, docente universitaria di lingua e letteratura francese a Pavia, Sassari, Bergamo, e traduttrice, che nel 2018 è stata finalista sia al Premio Strega (con “La scomparsa di Josef Mengele” di Olivier Guez, da lei tradotto in italiano), sia al Premio Stendhal per la migliore traduzione letteraria dal francese (di “Regno animale” di Jean-Baptiste Del Amo).
La professoressa Botto aveva un adenocarcinoma al terzo stadio, è morta ieri mattina in una clinica svizzera col suicidio medicalmente assistito. Per avervi accesso si era rivolta all’associazione Soccorso civile di cui è presidente e responsabile legale Marco Cappato, che stamattina andrà ad autodenunciarsi alla stazione dei carabinieri di Milano Duomo insieme a Cinzia Fornero, 52 anni, guardiaparco nel Torinese, iscritta a Soccorso civile, e al fratello di Margherita, Paolo Botto, per essersi occupati "dei rapporti con la clinica svizzera, dell’organizzazione del viaggio e dell’accompagnamento" della professoressa. Li assiste un collegio legale guidato dall’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni. Paolo è il secondo familiare ad accompagnare una persona in Svizzera a porre fine alla propria vita e poi autodenunciarsi, assumendosi il rischio di conseguenze penali. Il primo, meno di un mese fa, era stato Vittorio Parpaglioni, 25 anni, figlio dell’attrice e regista romana Sibilla Barbieri che ha scelto il suicidio assistito dopo più di un decennio di battaglia contro il cancro.
In Italia, ricordano dall’associazione Luca Coscioni, non c’è una legge nazionale che regolamenti l’aiuto alla morte volontaria. Si fa ancora riferimento alla Corte costituzionale - che più volte ha invitato il Parlamento a legiferare in materia -, alla sentenza sul caso Cappato-dj Fabo che nel 2019 ha decretato la non punibilità di chi aiuta una persona a morire limitandola, però, a precise condizioni di chi chiede supporto per la morte volontaria: dev’essere capace di autodeterminarsi, affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute dalla persona intollerabili ed essere dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Questi requisiti, insieme alle modalità, devono essere verificati dal Servizio sanitario nazionale basandosi sulla legge sulle Dat e su un parere del comitato etico territoriale, e "non vengono garantiti tempi certi", sottolinea l’associazione Luca Coscioni che ha lanciato raccolte firme per ottenere leggi regionali che assicurino il percorso.
Ma anche le maglie della norma, denuncia, sono troppo strette: sinora solo cinque malati hanno avuto il via libera a morire in Italia; due l’hanno fatto, gli altri stanno decidendo. Intanto, "ancora molte persone" che non rientrano nei requisiti sono state costrette a recarsi in Svizzera, come Elena, il lombardo Romano, Massimiliano, Paola, ricorda Soccorso civile. Le tre Procure (Milano, Bologna e Firenze) che stanno esaminando le posizioni dei "disobbedienti civili" che li hanno aiutati hanno chiesto l’archiviazione. Gli iscritti a Soccorso civile pronti ad aiutare altri malati sono ora più di 35, inclusi i parlamentari Riccardo Magi e Ivan Scalfarotto e l’ex senatore Luigi Manconi.