
Minoru Hirazawa titolare di Poporoya (NewPress)
Milano - 14 ottobre 2017 - «Signora entrata e via via preso il marito e scappata». Si afferrano solo alcune parole del fiume in piena che è Minoru Hirazawa, ma la sua risposta è chiara ai tanti clienti affezionati, che hanno imparato a decifrare i suoi discorsi: il primo italiano è stato un uomo portato via a forza dalla moglie che non si fidava di questo sushi bar perché temeva vi si cucinasse il pericoloso pesce palla. Per convincere gli italiani all’inizio Hirazawa il sushi doveva regalarlo. Erano gli anni ’80 e a Milano c’erano solo due ristoranti analoghi: Suntory e Endo. Il signor Hirazawa ebbe l’idea di aprire Poporoya, primo sushi-bar in pieno stile giapponese: vai, aspetti nel minimarket, vedi la preparazione del piatto, ti siedi, mangi e riparti. Di fronte c’è anche il ristorante, ma qui è più autentico: un pezzo di Giappone e ormai anche di storia di Milano.
I clienti conoscono Hirazawa come Shiro cioè “bianco”, un soprannome che risale ai tempi delle scuole serali a Osaka, quando agli esami consegnò il compito in bianco, non firmato. «Chi è Shiro?» chiese il professore, da quel giorno è per tutti Shiro. All’nizio, in realtà, Poporoya era frequentato solo da pochi giapponesi di passaggio, businessmen o cantanti lirici diretti alla Scala. Nei decenni seguenti i personaggi celebri che passavano di qui erano invece italianissimi: Paolo Rossi, Mario Biondi, Matia Bazar, tutti volevano incontrare lo chef, ma lui non riconosceva nessuno, si faceva aiutare dalla figlia e dai collaboratori.
Quando Carmen Consoli chiese di essere fotografata da Poporoya per il nuovo disco e si presentò in ritardo di un’ora lui, stanco della sveglia all’alba per andare al mercato del pesce, se ne andò a dormire. Nella foto con Carmen Consoli, infatti, compare solo la moglie. Un’altra difficoltà degli esordi, ammette Shiro, era trovare le materie prime giuste: «Il riso italiano non è adatto al sushi e importarlo non era possibile». Quindi andò a parlare con un responsabile del ministero a Roma, per chiedere le autorizzazioni. Shiro lo ricorda e imita ancora: gambe sul tavolo e accento romano, il responsabile governativo gli consigliò di importare i semi di nascosto. Anche gli accessori dovevano essere importati: banco frigo, bancone, introvabili fuori dal Giappone. Infine, il metodo di taglio: fu Shiro a insegnarelo ai venditori del mercato del pesce milanese «come tagliavano i tonni loro andava comunque bene, ma non per il mio sushi».