
Teo Teocoli
Milano, 31 luglio 2017 - Che notti quelle notti. Nessuno come lui ha attraversato tutte le epoche dello spettacolo italiano, o ha vissuto gli anni ruggenti dell’Italia del boom. Teo Teocoli, una vita da comico, talento puro, mille personaggi, centomila risate.
Lei faceva il pendolare tra la Riviera Adriatica e Milano...
«Su viale Ceccarini a Riccione c’erano moltissimi locali, col mio complessino andavamo al Canasta, ma ricordo la Villalta, la Panoramica, il Sabbiolino, che non erano certo il Cocoricò, che sarebbe venuto dopo. Ce n’erano per tutti i gusti, da quelli più chic ai meno raffinati, da quelli per i giovani a quelli per i meno giovani. Appena suonavi la mazurka saltavano fuori certi ottantenni che giravano come trottole...».
A Milano invece c’era il leggendario Derby, la culla del cabaret milanese...
«Ci ho lavorato per 17 anni, dal ’68 all’85. Finita la serata i colleghi andavano nelle trattorie sui Navigli, locali che per esempio si chiamavano ‘La fogna’. Allora i Navigli erano male illuminati, poco raccomandabili, frequentati dai malavitosi, ma noi artisti eravamo benvenuti e protetti. Si andava con Enzo (Jannacci) e Renato (Pozzetto), facevamo cantare i malavitosi che li ispiravano. Io andavo anche al Nepentha e al Charlie Max, frequentati dall’alta borghesia, per esempio i Moratti, di cui ero grande amico».
Il Derby era il locale più ruggente di Milano...
«Era un tipo di pubblico più attempato. Io spiccavo perché non è che ci fossero delle gran bellezze. Una sera una signora anche piacente mi avvicina e davanti a tutti mi fa: ‘Vorrei che lei venisse a letto con me’. Mi sono imbarazzato, io che non mi imbarazzo mai. Un’altra volta un marito mi prende da parte: devi ciulare mia moglie, è innamorata di te e non so più cosa fare. Al Derby facevo cose diverse dagli altri, ho continuato la linea del musical ‘Hair’ che avevo fatto due anni prima. Mi sono anche spogliato, mentre Jannacci e Walter Valdi facevano le loro cose, cantavano in milanese. Venivano anche grandi cantanti come Paoli, Lauzi, Bongusto o stranieri come Amalia Rodrigues».
Poi si andava sempre sui Navigli?
«Andavamo anche al Capolinea, in fondo a Ludovico il Moro, dove suonavano i jazzisti, cantavano i crooner. L’ultimo appuntamento era verso le quattro e mezza-cinque all’edicola di via Orefici ad aspettare il giornale. C’erano i camerieri che avevano appena smontato, i musicisti dei locali , le entraîneuse con i pupazzi alti tre metri che gli avevano regalato i clienti, costavano tre milioni l’uno. Eravamo ottanta-cento persone che chiacchieravano, tiravano tardi... Ricordo una notte, ero sulla Giulietta Sprint, mi sono seduto dalla parte del passeggero, con un ginocchio muovevo il volante, con un piede pigiavo sull’acceleratore e andavo in giro per Milano deserta facendo finta che non ci fosse nessuno alla guida, un vero cretino... Allora Milano non era una grande metropoli, non c’era paura di girare di notte».
Ha incontrato molti malavitosi?
«Allora io e Boldi eravamo quelli che facevano più ridere ed eravamo diventati i beniamini di Francis Turatello. Una volta abbiamo fatto una serata al Covo di Santa Margherita, un successone. Alla fine ci portano in un angolo e arriva Turatello. Ci fa i complimenti, dice che lo abbiamo fatto ridere un sacco, e quando allunga il braccio per stringermi la mano vedo che sotto la giacca aveva la mitraglietta...».
Chissà quante donne...
«Ero belloccio, sapevo ballare, assomigliavo anche a Celentano, facevo ridere, non mi mancavano certo le occasioni. A volte avevo una ragazza da andare a trovare tra i due spettacoli al Derby. Allora, dopola prima uscita, andavo al Nepentha, mi facevo prestare la 124 dal proprietario, andavo dalla ragazza, poi tornavo al Derby per la chiusura, quindi al Nepentha a restituire l’auto. E alla fine tornavo a casa in tram».
Teocoli e le macchine.
«La prima è stata una 500 che mi prestava Torello Bianchini da Perugia, che aveva aperto a Milano una fabbrichetta di confetti. Me la dava la sera per andare al lavoro e io gliela lasciavo sotto casa con le chiavi sotto il tergicristallo. Sono riuscito a comprare la mia prima auto col milione guadagnato con la pubblicità: ero diventato il ‘ragazzo Lebole’. A casa, mio padre mi disse: ‘Mezzo milione dallo a me, che so come investirlo’ – quei soldi non li ho più visti. Con l’altro mezzo milione mi sono comprato una Giulietta Spider nera con gli interni rossi, due colori che non mi dispiacevano. Non avevo nemmeno la patente e sapevo guidare così così, al primo parcheggio ho fatto esplodere due pneumatici contro il marciapiede».
L’auto più folle che ha avuto?
«Una Morgan bianca, bellissima. Poi una Bmw, che mi hanno rubato all’Isola. Ero disperato, dentro avevo i costumi di scena. Era notte, ero lì che sacramentavo quando mi si avvicina uno con l’aria del duro. Mi fa: ‘Tu non preoccuparti. Ci penso io’. Se ne va. Io penso sia un malavitoso che conosce tutti e che mi farà restituire la macchina. Quando torna mi guarda e mi dice: ‘Niente, te l’hanno rubata’. Avevo bisogno che me lo dicesse lui! Poi ho avuto una Porsche cabrio, bianca col tettuccio nero. È dell’83 e ce l’ho ancora. Ogni tanto le faccio fare un giretto a Milano quando non ci sono i divieti. A Milano la domenica mattina è pieno di Porsche, Jaguar, Ferrari storiche che prendono un po’ di aria...».
La cosa più folle che ha fatto in quegli anni?
«Ero con il grande Guido Nicheli, che mi fa: andiamo a Cadaques, ci divertiamo come pazzi. Arriviamo e c’erano solo tre bar! Be’, devo fare questo spettacolo al Roof di Sanremo, allora prendo la moto – una Kawasaki 900 – e faccio mille chilometri fino a Sanremo. Era uno spettacolo musicale con Celso Ossario. Finito lo spettacolo, dico a Celso: ‘Ciao, io vado’. Inforco la moto e riparto per Cadaques, mentre nello specchietto vedo la sua faccia esterrefatta. A quei tempi il casco non era obbligatorio, quando sono arrivato a Cadaques per una settimana ho avuto la cresta di capelli all’indietro, come il marchio della Wella. Sono stati gli anni più belli della mia vita».
Gli anni d’oro quando sono terminati?
«Nel 1985. Sono successe tre cose: ho mandato al diavolo Berlusconi con la frase: ‘Lei faccia il geometra che io faccio l’artista’. Il Derby ha chiuso. E sono andato a vivere con quella che sarebbe diventata mia moglie. La fine di un’epoca»