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Paolo Asti (foto di Andrea Cherchi)
Milano – Architetto Paolo Asti, è stata una sfida da far tremare i polsi, accostarsi ad un “capolavoro“ dell’architettura brutalista. Come ha impostato il lavoro di recupero?
“Con moltissimo rispetto, in accordo con Hines, la proprietà. Nell’approcciare un edificio con quel bagaglio di storia e simbolo della rinascita del Paese, lo sforzo è stato di nascondere il nostro intervento, in modo che la Torre apparisse uguale a quando fu realizzata ma contemporanea, funzionale, sostenibile, grazie all’utilizzo di tutte le tecnologie di cui disponiamo”.
Una Torre non sempre amata dai milanesi.
“È stata vista come invasiva in quel tessuto urbano. Nessuno è mai andato a godersi la vista dal basso. Però è stata costruita in meno di due anni, mentre adesso non riusciamo a fare un appartamento in 24 mesi”.
Le facciate sono tornate al colore autentico, e gli interni?
“Sono stati oggetto di un recupero, sotto l’egida della Soprintendenza, rispettoso di elementi storici, dalla boiserie sulle pareti ascensori, in listelli di mogano, alle storiche segnaletiche di piano, e ai lampadari a grappolo realizzati in ottone brunito e vetro...le piastrelline dei bagni le abbiamo fatte rifare tali e quali nelle dimensioni da un’azienda artigianale del Sud specializzata in cottura a mano delle ceramiche. L’azienda Olivari ha riesumato per noi la maniglia Velasca. Il palazzo era stato depredato dai precedenti inquilini: si sono portati via maniglie e lampadari. Per gli esterni abbiamo usato un mescola speciale, con la Mapei abbiamo fatto il contrario di tutto per risalire a quella originale. La facciata è tornata ad un rosa non omogeneo. Lo spirito della Velasca è salvo, l’abbiamo coniugato nell’uso dei materiali, nelle distribuzioni interne degli spazi vicine al disegno originario. E finalmente i milanesi potranno disporre di una piazza e non di un “non luogo“ come è stato per 70 anni. Un posto respingente, assediato da auto e parcheggio selvaggio, ora invece ripavimentato, con nuove sedute, e il verde. Restaurati i due lampioni, progettati dai BBPR. E c’è anche la fermata della M4”.
C’è un aumento dell’interesse per un turismo architettonico, anche a Milano, alimentato anche dal recente film “The Brutalist“ con Adrien Brody.
“Posso confermare. Avendo avuto la fortuna di occuparmi della rinascita della Torre sono in continuo contatto con realtà accademiche di altre parti del mondo che esprimono interesse per questa architettura. Se guardiamo all’Italia, non mi viene in mente un altro edificio con una tale presenza scenica. Ritengo sia una forma di primato nel nostro Paese, l’intervento più iconico nel panorama brutalista di quegli anni”.
La piazza sarà l’unico spazio “pubblico” restituito ai milanesi, per il resto le residenze di lusso, con due ristoranti e una spa, sono destinate a ben altri portafogli...
“Il centro di Milano viene vissuto in maniera diversa rispetto al passato, c’è una presenza estemporanea, “mordi e fuggi“ che in questo momento coincide con la tendenza e il momento storico che vive la città che ha un appeal internazionale. Ma il concetto di lusso è estraneo alla Torre Velasca, originariamente realizzata con “spazi sobri“. E noi abbiamo rispettato la vocazione della torre, un mix di appartamenti, uffici e commercio. Le famiglie hanno bisogno di spazi, questi restano appartamenti piccoli, sui 70 metri quadrati”.
Lei è l’architetto dei grandi fondi immobiliari. Ha seguito ristrutturazioni importanti, recentissimo è il restauro del quartier generale di Bottega Veneta in Piazza San Fedele e risale a qualche anno fa il restauro del palazzo di Piazza Cordusio ora sede di Starbucks. C’è qualche luogo più del cuore che di business?
“L’isolato di via Palla, un “dente cariato“ su via Torino, rimasto tale dopo i bombardamenti: siamo riusciti a restituire dignità a quella parte della città, in connessione con la retrostante piazza Sant’Alessandro e via Lupetta”.
Milano sempre più una città per ricchi.
“Sono considerazioni che esulano dal mio mestiere, cerco di interpretare al meglio le parti di città che si è chiamati a modificare. La declinazione che tutto ciò prende, di valori al metro quadrato, è una cosa che parte da lontano, dall’edilizia. Purtroppo la città ha fame di case”.
Suggerimenti?
“Ci vorrebbero azioni che coinvolgano più il pubblico. Milano è un brand che attira sempre più persone, anche giovani che vogliono vivere qui. Il vero problema di Milano non sono i fondi d’investimento, ma è che non si è stati capaci in oltre 30 anni di trasformarla in un’area metropolitana. Un cambiamento culturale, ma ormai “fisico“. Finché sarà così piccola, la dimensione di un quartiere di Londra, non andremo da nessuna parte. La soluzione è di mettere nell’agenda politica la costruzione della città metropolitana, allargare i confini. Poi le periferie, la vera bruttura. Si devono avviare dei concorsi di architettura finalizzati ad un progettazione congiunta per cambiare il volto di Milano. Interventi pubblici, con regole chiare”. Chi ha orecchie, intenda.