Milano – "I contratti a tempo indeterminato sono aumentati a Milano, ma i neolaureati cambiano impiego molto spesso: oltre il 40% dei contratti termina nell’arco di tre anni. Un dato che fa riflettere anche le aziende, che ora si interrogano su come riuscire a trattenere i giovani". Silvia Salini, docente di Statistica dell’Università Statale di Milano, è tra i curatori del terzo rapporto del Milan Higher Education Observatory (Mheo) dedicato agli sbocchi professionali dopo la laurea.
Silvia Salini, è tramontato il mito del posto fisso?
"A fronte di un aumento dei contratti a tempo indeterminato, c’è una mortalità contrattuale elevata già il primo anno. Gli studenti cambiano frequentemente lavoro. E questo apre una serie di domande. Perché lo fanno? Sono più esigenti? Succede solo in Lombardia perché il mercato è dinamico o vale anche per altre regioni d’Italia? Si cambia per motivi salariali? L’obiettivo dell’osservatorio Mheo è analizzare i dati e porre queste domande al sistema universitario e al sistema delle imprese per trovare strategie e politiche".
Gli stipendi dei neo-laureati sono sufficienti per riuscire a “permettersi” la cara-Milano?
"Sono leggermente più alti rispetto ad altre regioni, ma parliamo di cifre che si discostano di una cinquantina di euro, non vanno certo a compensare il caro-vita. E qui si apre il tema della tenuta del sistema Milano. Negli ultimi 10 anni il numero di studenti è continuato ad aumentare, Milano tiene. Ma fino a quando? Se non ci saranno investimenti significativi su diritto allo studio, residenze e alloggi la competitività della città potrebbe venir meno. Milano rischia di non essere attrattiva nel lungo periodo. Le università su questo stanno riflettendo molto, è un tema caldo nella governance di tutti gli atenei".
Quanti sono gli studenti in uscita da Milano? Dove guardano?
"Per ora sono ancora molto pochi: il 9,6% si sposta in un’altra regione del Nord Italia, il 6,1% al Centro e al Sud e il 7,8% guarda all’estero. Questa fuga verso l’estero a Milano è meno forte rispetto ad altre città italiane, probabilmente perché comunque ci sono altre opportunità di crescita, anche se il salario è meno competitivo. Il mercato è ancora dinamico, ma come università e come enti locali dobbiamo interrogarci su come restare attrattivi".
C’è stata una ripresa dell’occupazione in Lombardia dopo la pandemia?
"Sì, sono aumentate le assunzioni. Ma ad aumentare è anche il mismatch tra domanda e offerta: le imprese faticano a trovare figure con alta specializzazione. E questo deve servire da stimolo agli atenei per capire come intervenire dell’offerta didattica per formare le professionalità giuste, che occorrono. I corsi cambiano, si aggiornano, ma si rischia di arrivare tardi".
Quali sono le competenze più richieste?
"Soprattutto quelle digitali e “green”: sono aumentate in modo complementare nel post Covid e, se prima riguardavano in modo specifico alcuni lavori, adesso sono richieste in vari ambiti professionali, non solo sul fronte informatico e delle scienze ambientali, diventano trasversali. Anche questo dà indicazioni alle università: vanno integrate nei diversi corsi di laurea come le competenze sull’intelligenza artificiale, che saranno cruciali".
Per quanto riguarda le discipline Stem, c’è ancora un divario di genere?
"Sì, come conferma l’osservatorio Deloitte. Ed è un tema generalizzato: non vale solo per l’Italia e va oltre la scelta del percorso di studio. In Europa ci sono più donne tra gli studenti universitari (54,8%) ma sono ancora in minoranza nelle facoltà Stem (31,9%). E non basta una laurea Stem per trovare un lavoro Stem: ci sono ancora discriminazioni - e non solo sul fronte salariale - che vanno superate".