CLAUDIO
Cronaca

Truccazzano. Sulla pista del bisonte

Negri Laggiù, dove diradano i capannoni e il vento ha più libero corso sui pascoli, c’è Berot Creek, ai più...

Negri Laggiù, dove diradano i capannoni e il vento ha più libero corso sui pascoli, c’è Berot Creek, ai più...

Negri Laggiù, dove diradano i capannoni e il vento ha più libero corso sui pascoli, c’è Berot Creek, ai più...

Negri Laggiù, dove diradano i capannoni e il vento ha più libero corso sui pascoli, c’è Berot Creek, ai più conosciuta come Truccazzano: lì i fiumi e le rogge hanno nomi femminili e nei prati, a ben cercare, si trovano ancora tracce della pista del bisonte e del saltamartino. Qui era nato mio padre, qui torno io sempre più spesso, in cerca di legittimazione alle mie radici profonde. In molte case del centro non ci sono più storie nè voci, ma gli ultimi Sioux Berota (Lakota, Dakota...) sono molto tenaci nel ricordo e nel presente confuso in cui tutti abbiamo temporanea residenza: non è danza di spettri, nè nostalgia acuta di balere estive. Ai Sioux Berota basta un movimento lento, un fruscio di discoteca primordiale, per essere nel loro vero altrove, in cammino per la terra e per il cielo sacro di Rezzano o per la sponda del lago Gerundo dei draghi e del servizio di piroghe municipali, un pò più giù del Torrettone, in rotta per Rivolta o per Lodi. Pierino, mio padre (il cui vero nome Sioux è segreto a tutti) aveva imparato a nuotare, come si dice, a cagnotto, nel ricordo di quella grande palude che era l’Adda, ben prima di Renzo Tramaglino a non prendere troppo in confidenza la buona voce del fiume. Rilevo che i vecchi abitanti di Berot Creek chiamano i nomadi in modo diverso dai loro vicini: qui gli zingari non sono “i szìngher” ma “i szigàgn”, gli zigàni: c’è nel termine un trasalimento quasi romantico. Mi pare che un Sioux che si rispetti debba condividere almeno la complicità con chi ha il mondo intero come potenziale meta di pellegrinaggio. Papà Pierino, in tal senso, girava il suo mondo in scala ridotta con buon’umore sconfinato: di lui ricordo, più delle espressioni serie o accigliate, i larghi sorrisi che gli facevano gli occhi piccoli e lucenti. Poteva essere il Papageno del Flauto Magico, ma coi panni risciaquati nella roggia Mariana, o il Tom Bombadil gaio e misterioso delle saghe di Tolkien. Aspetti e sfaccettature del Sioux primordiale che sento in parte avere nel mio Dna non mitocondriale e nelle istanze dell’anima: con la voglia - e ormai resterà tale - di salire su un pioppo sotto il temporale o di inseguire il canto dell’allodola.