ANNA GIORGI
Cronaca

Finte riviste della polizia: "Io pentito, vi racconto come truffavamo gli anziani"

Un ex studente che ha lavorato al call center rivela le tecniche: "Con l'abbonamento avrà una tessera: la esibisce e lei sarà protetto da noi"

Una postazione in un call center (foto d'archivio)

Milano, 2 aprile 2017 - Truffatori di anziani e piccoli imprenditori che vendevano finte riviste di polizia, carabinieri e guardia di finanza attraverso abbonamenti che poi lievitavano di prezzo. Due giorni fa ci sono stati quattro arresti, in manette i titolari delle società che gestivano i call center, tre dei quali in zone centrali di Milano. Venticinque persone, quasi tutti i dipendenti, sono stati denunciati. Francesco F., 30 anni, per mantenersi gli studi, diversi anni fa, ha lavorato proprio per uno di questi call center, ignaro che si trattasse di una maxitruffa ben architettata.

Francesco, ci racconta come è entrato in contatto questi call center?

«Ho trovato l’annuncio su un volantino. Ero al primo anno di università, avevo bisogno di guadagnare qualcosa durante gli studi, cercavo un lavoro che mi impegnasse poco e mi promettesse un guadagno veloce. Sul volantino c’era scritto che una importante società editoriale stava cercando giovani, anche senza esperienza, da formare per una attività nel campo della comunicazione. Crescita professionale, carriera per i migliori e, insomma, le solite promesse. Così presi un appuntamento».

Chi incontrò per il colloquio?

«Fissai un incontro, il colloquio era in un ufficio di viale Monza. Entrai e vidi una stanza con una quindicina di computer e altrettanti ragazzi al telefono. Capii subito di che tipo di lavoro si trattava. Al colloquio eravamo in sei».

Che cosa le spiegarono del suo futuro lavoro?

«Quasi niente, a dire la verità. Un uomo sulla quarantina, abbronzatissimo, camicia aperta e vistosa catena al collo, con aria da “boss”, ci spiegò che cosa dovevamo fare. Poi ci fece leggere degli annunci. Ricordo che a me disse, lei con quella voce non vendere niente, deve fare la voce più dura».

Quando cominciò a lavorare?

«Subito, dal giorno dopo, cercavano con urgenza. C’erano due turni uno dalle 9 alle 13 e l’altro dalle 13 alle 18. Oppure si poteva fare il turno lungo dalle 9 alle 18. Io scelsi di fare la mattina».

Come vi formarono?

«C’erano delle regole per l’approccio alle persone, per me solo potenziali clienti. Non capii subito che c’era qualcosa che non andava, non mi insospettii subito».

Gli investigatori hanno parlato di un vero e proprio linguaggio che si doveva utilizzare al telefono.

«Sì, il messaggio che bisoganva far arrivare era che eravamo appartenenti alle forze dell’ordine, senza però mai dirlo apertamente perché ovviamente non lo eravamo. Quindi ci consegnarono un elenco di numeri, se rispondeva un uomo dovevamo dire con voce perentoria: “Comandi”, la chiamo da «Carabinieri Oggi», oppure da «Polizia domani». Poi la frase per convincerli ad abbonarsi era: “Ascolti me, signor..., lei quando sarà un nostro abbonato, avrà anche una tesserina. La mette sul vetro della macchina, bene in vista, e può andare anche ai 180 in autostrada che tanto nessuno la ferma”. Oppure, ai commercianti: “Lei mette la nostra tesserina in vista, in vetrina, e i nostri ragazzi quando passano, si fermano per due chiacchiere e se lei ha bisogno di qualcosa loro aggiustano tutto”.

Se a rispondere era una donna?

«Si chiedeva subito di poter parlare con il marito o il figlio. Se non era possibile, con le donne si faceva leva su altri tasti. Ad esempio: “Signora noi qui controlliamo tutte le strade, siamo operativi sempre, mai un momento di riposo, mai un pasto a casa, e uno stipendio bassissimo. Abbiamo famiglia. Ci può dare una mano con un po’di soldi?”. Se erano titubanti: “Perché non ci vuole aiutare? Eppure i nostri ragazzi li, i carabinieri, ci dicono che lei è persona nota, perbene”. Poi a fine telefonata: “Per noi la parola data vale più di una carta scritta”».

Come sceglievate le persone da chiamare?

«La lista la consegnavano loro. A volte anche attività trovate banalmente su Internet, o all’epoca, sulle Pagine Gialle».

Come la pagavano?

«L’accordo era una provvigione ad abbonamento. In realtà io non avevo la possibilità di capire se la persona chiamata faceva veramente l’abbonamento, perché poi c’era un secondo ufficio di telefonisti «senior» indicati come «esperti» che si occupavano di chiedere denaro. Il mio lavoro finiva con la telefonata in cui proponevo semplicemente l’abbonamento. Non sapendo come andava a finire l’acquisto, in un certo senso “truffavano” anche me, perché a fine mese mi davano sempre le solite duecento euro».

Così decise di lasciare...

«Restai lì sei mesi, cominciai quasi subito ad avere forti sospetti. Guardai le riviste, erano tutte uguali, cioè gli stessi pezzi erano ripubblicati più o meno in tutte le edizioni. Quindi erano evidentemente false, anche se “il boss” sosteneva che fossero tutte regolarmente registrate al tribunale. Poi smisi di spacciarmi vagamente per poliziotto quando non lo ero perché era scorretto. E infine ero stanco di non essere pagato. Così me ne andai».