Milano, 29 maggio 2019 - «Il sangue nostro ce lo dobbiamo bere noi, non lo possiamo dare a nessuno». Il corpo di Cataldo Aloisio fu trovato alle 7.45 del 27 settembre 2008 davanti al cimitero di San Giorgio sul Legnano, il luogo in cui è sepolto il boss Carmelo Novella. In tanti all’epoca, a cominciare dagli investigatori, ipotizzarono che l’assassinio del quarantaquattrenne di Cirò, provincia di Crotone, fosse legato proprio all’uccisione dello “scissionista” della ’ndrangheta al Nord, avvenuta poco più di due mesi prima a San Vittore Olona.
Invece era solo un tentativo di depistare le indagini. Indagini che, a circa 11 anni dai fatti, hanno portato all’individuazione di mandanti ed esecutori materiali, nell’ipotesi d’accusa dei pm delle Direzioni distrettuali antimafia di Milano e Catanzaro: a ordinare l’esecuzione furono, secondo gli accertamenti investigativi dei carabinieri del Ros, il settantenne Silvio Farao e il cinquattottenne Cataldo Marincola, ai tempi reggenti latitanti della ’ndrina che porta i loro nomi; a compiere materialmente l’omicidio furono Vincenzo Farao, 46 anni, e Vincenzo Rispoli, 56 anni, capo della “locale” di Legnano-Lonate Pozzolo. Stando a quanto ricostruito, Aloisio fu fatto fuori dalla famiglia della moglie, i Farao, sostanzialmente per due motivi. Il primo: voleva vendicare la morte dello zio Vincenzo Pirillo (di quella sparatoria, avvenuta a Cirò Marina il 5 agosto 2007, è ritenuto responsabile il 49enne Giuseppe Spagnolo), a sua volta ucciso su mandato dei Farao perché accusato di aver gestito male i conti del gruppo criminale, non sostenendo economicamente le famiglie dei detenuti e investendo parte del denaro comune in un’attività edile senza dare conto a nessuno. Il secondo: il clan aveva scoperto che Aloisio aveva intrapreso una sorta di collaborazione con i carabinieri di Crotone. «Poteva essere pericolosa non ’na vota, ma due, diciamo che era un coltello no che tagliava da una parte sola, se lo stringevi tagliava da tutte e due», la sintesi che il collaboratore di giustizia Francesco Oliviero ha fatto ai pm.
Sì, perché in questa storia le rivelazioni dei “pentiti” hanno giocato un ruolo determinante. Alimentata inizialmente dalle dichiarazioni di uno dei due sicari dell’omicidio Novella, Antonino Belnome, l’inchiesta ha trovato nuova linfa nel gennaio 2018 dalle parole messe a verbale da Francesco Farao (arrestato nell’operazione Stige), cognato di Aloisio. «Posso dirvi, perché così mi è stato riferito da mio cugino Vittorio Farao, che a decidere l’eliminazione di mio cognato sono stati mio zio Silvio Farao e Cataldo Marincola, che all’epoca erano entrambi latitanti. So che a eseguire materialmente l’omicidio sono stati mio fratello Vincenzo e mio cugino Vincenzo Rispoli», la rivelazione-chiave. Rivelazione alla quale è seguita una lunga e meticolosa attività di riscontri, anche con l’ausilio della Dia, su tabulati telefonici e movimenti dei presunti assassini. Senza dimenticare le dichiarazioni convergenti di altri collaboratori di giustizia. Compreso Carmine Venturino, l’uomo che nel 2013 ha svelato i particolari dell’omicidio di Lea Garofalo (al quale lui stesso partecipò), la testimone di giustizia uccisa (il corpo fu successivamente dato alle fiamme) nel novembre 2009 dal marito Carlo Cosco, dal fratello Vito e da altre tre persone. In questo caso, Venturino ha riferito al pm Cecilia Vassena quanto avrebbe sentito nel corso di un colloquio tra Cosco e Mario Carvelli: «Bisbigliavano dopo l’omicidio di Aloisio, e dicevano che se l’era vista Vincenzo Rispoli».